06 marzo 2018

Cinema Oscar 2018

 
Quel che resta degli Oscar, dove i messicani la scampano dalle faide di razza e genere. E vincono
di Federica Polidoro

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Ritardata fino all’inizio di marzo per non sovrapporsi alle Olimpiadi, questa novantesima, controversa e noiosissima Notte degli Oscar (in onda su Sky dalle 2 di notte, ora italiana) aveva come tema la rivincita delle donne sul sessismo sistematico di Hollywood, “vecchio almeno quanto le sue colline” (come scrive Pamela Hutchinson su The Guardian). 
Non è un mistero che il numero delle registe ad Hollywood in trent’anni è rimasto invariato: appena l’11 per cento dell’intera produzione, come ha ricordato Jimmy Kimmel che presentava la cerimonia. E in 90 anni si contano sulle dita di una mano le nominate alla regia. Nel ‘77 Lina Wertmuller con Pasqualino Settebellezze fu la prima, seguì nel 1994 Jane Campion con Lezioni di piano. Nel 2004 fu la volta di Sofia Coppola, figlia del più famoso Francis Ford, ma soltanto nel 2010 il primo Oscar per miglior film (attualmente l’unico) finì nelle mani di Katerine Bigelow con The Heart Locker
Allora ecco la rivalsa del sesso debole sulla scia post Weinstein. E che il fine giustifica il mezzo, nessuno lo sa meglio di Greta Gerwig, che grazie al politically correct è rientrata in lizza tra i migliori film con la commedia post adolescenziale Lady Bird, film che in un altro momento della storia in questa categoria non sarebbe mai stato considerato. 
Il messaggio di cambiamento negli orientamenti dell’Academy è chiaro, le decisioni radicali di Cheryl Boone Isaacs, presidente degli Academy of Motion Picture Arts and Sciences fino allo scorso anno, hanno portato grande rinnovamento nella struttura che vota per i film. Tagliati fuori gli inattivi, cariatidi che hanno fatto la storia ma che in qualche modo impedivano uno sguardo d’insieme sul nuovo panorama produttivo nord americano e internazionale, linfa giovane si è unita al collettivo con talentuosi attori, direttori della fotografia, registi e tecnici di nuova generazione, provenienti dalle più varie estrazioni ed etnie.
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Frances McDormand, Oscar come migliore attrice per Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Proprio grazie a queste nuove politiche inclusive nella lista dei migliori film del 2018 è riuscito ad entrare il capolavoro di Guillermo Del Toro, The Shape of Water, un film che solo pochi anni fa sarebbe stato marchiato e snobbato perché di genere. Un capolavoro che ha portato invece a casa 13 nomintion e quattro premi di cui miglior Film e miglior Regia, migliore scenografia e migliore colonna sonora firmata Alexsandre Desplat (per lui seconda vittoria dopo The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson nel 2015). 
La forma dell’acqua è un film d’intrattenimento puro, che funziona ad ogni livello, una dichiarazione d’amore al cinema (che si è pure beccata qualche accusa di plagio, vedi il caso Jean Pierre Jeunet/Delicatessen), dove con la creatura marina riemerge anche il cinema degli anni d’oro. Così negli schermi vintage passano Carmen Miranda con Chica Chica Boom Chic o Shirley Temple con Mr Bojangle e i riferimenti indiretti vanno ancora più lontani nel tempo fino a Young and Healthy in Dames di Busby Berkeley, roba che impreziosisce l’esperienza scopica dei cinefili ossessivo-compulsivi, senza appesantire lo spettacolo per tutti gli altri. 
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Gary Oldman, Oscar per migliore attore per The Darkest Hour
Tornando ai premi, la distribuzione è stata quanto mai equa, giusto per non lasciare nessuno a bocca asciutta, con l’eccezione di Lady Bird. Come annunciato dagli allibratori di mezzo mondo i premi tecnici sono andati tutti a Christopher Nolan e al suo rumoroso Dunkirk, che ha guadagnato l’Oscar per il miglior montaggio video e per il montaggio e il missaggio audio. Luca Guadagnino, che concorreva in ben quattro categorie, ha regalato il suo Oscar allo sceneggiatore d’eccezione James Ivory: è stato lui ad adattare per il grande schermo Chiamami col tuo nome. Jordan Peele, terzo nero della storia ad aver ottenuto una candidatura tra i migliori film, ha vinto invece per la sceneggiatura originale dell’horror Scappa – Get Out. Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri, film scritto e diretto da Martin McDonagh, si è aggiudicato la categoria miglior attore non protagonista, con Sam Rockwell nella parte di un razzista dal cuore tenero, insieme alla protagonista Frances McDormand, donna di ferro stavolta inverosimilmente emozionata per il premio. Due vittorie ampiamente annunciate da tutti i media. Joe Wrigh con L’ora più buia mette in mano a Wiston Churchill, interpretato da un irriconoscibile Gary Oldman, un Oscar per la migliore interpretazione maschile e pure i maestri del trucco prostetico vincono la statuetta. Il premio per i costumi va invece a Mark Bridges per Phantom Thread di Paul Thomas Anderson, storia d’invenzione su un sarto misantropo e sulla sua musa, ispirato alle atmosfere di Max Ophuls. Miglior attrice non protagonista è stata confermata, come da pronostici, Allison Janney, nel film sulla pattinatrice Tonia Harding, I, Tonia di Steven Rogers. Gli effetti speciali sono finiti a Blade Runner 2049, che ha anche garantito a Roger Deakins il primo Oscar alla fotografia dopo ben 14 nomination. Unico colpo di scena il film straniero. Il cileno A Fantastic Woman di Sebastian Lelio sul transgender Marina Vidal alias Daniela Vega, prodotto tra gli altri anche da Pablo Larrain, soffia la statuetta al favorito The Insult del libanese Ziad Doueiri.
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Jodie Foster e Jennifer Lawrence
In conclusione mentre si combatte una guerra per le pari opportunità di genere e razza (si affaccia timida, per esempio, la prima candidatura della storia per la fotografia di una donna, Rachel Morrison per Mudbound di Dee Rees), nel giro di un brevissimo lasso di tempo, un gruppo di messicani, tutti della stessa generazione, hanno fatto le scarpe al resto del mondo cinematografico, portandosi a casa un numero spaventoso di nomination e statuette. Così mentre la National Hispanic Media Coalition e le altre star latine sono insorte per essere poco rappresentate nei premi, di fatto i colleghi registi, ma non solo loro, hanno quasi monopolizzato la scena. Nel dettaglio dal 2006 sono emersi tra le candidature i nomi de “I tre amigos”, come chiamati in un libro dedicato alle loro esperienze produttive, Alfonso Cuarón Orozco (1961), Alejandro G. Iñárritu (1963) e Guillermo del Toro Gòmez (1964). I compagni dal 2013 al 2018 hanno poi collezionato un totale di 44 candidature e 19 statuette. Per citarne alcune ricordiamo miglior regia e montaggio per Cuarón con Gravity nel 2013, successo anche d’incassi che nel mondo ha raggiunto la cifra record di 723 milioni di dollari. Iñárritu a seguire vinse il premio per il miglior film e la miglior regia di Birdman e poi ancora per la regia di The Revenant, titolo che ha fruttato anche l’agognato Oscar per Mr. Di Caprio. Il regista, ancora soddisfatto, quest’anno ha pure ricevuto un premio speciale per il suo progetto di realtà virtuale, Sangue Y Arena, presentato fuori concorso a Cannes. Infine Del Toro con le sue due statuette al miglior film e alla miglior regia ha sbaragliato gli avversari nell’anno delle spartizioni più eque della storia. L’onda di “Que viva Mexico!” si è espansa anche ad altri campi dello showbiz, Emmanuel Lubezki (Mexico City, 1964) ha ritirato uno dopo l’altro tre Oscar per la migliore fotografia per alcuni dei film sopra citati tra il 2013 e il 2015, dopo quello di Guillermo Navarro per il Labirinto del fauno nel 2006, anno in cui vinceva pure Eugenio Caballero per la scenografia dello stesso film. 
In questa novantesima triste edizione degli Oscar infine di messicano c’era pure il cartone Disney Pixar, Coco, diretto da Lee Unkrich e Adrian Molina (nativo di Yuba City, California, e figlio di immigrati messicani) che ha portato a casa gli Oscar per Best Animation Feature e Best Original Song di Miguel, Remember Me. Il film era ambientato nel mondo dei morti nel giorno delle celebrazioni a loro dedicate. 
Quel che più sembra accomunare questi registi, le loro opere e i film che si ispirano alla loro cultura è la capacità di sorprendere ancora le menti di spettatori voyeuristi abituati ormai a tutto e al peggio. Quella capacità di arrivare al cuore delle persone con l’onestà che, per citare Spielberg, hanno solo gli artisti di grande lignaggio.  
Federica Polidoro

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