20 novembre 2018

Cinema

 
Gli Incredibili siamo noi: note sul secondo episodio del film d’animazione di Brad Bird
di Domenico Sgambati

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Nel 1962, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Seattle, John Graham e Victor Steinbruek innalzarono una simbolica torre di 200 metri, simbolo della tensione dell’uomo all’esplorazione spaziale. Nello stadio nuovo di zecca, il Coliseum, c’era la mostra “World of Tomorrow”, che immaginava la nostra vita negli anni 2000, tra auto-volanti, veloci monorotaie e costruzioni avveniristiche. Qualche anno più tardi, all’EXPO di Montreal, tre monorotaia sfrecciavano per tutta la Citè-du-Havre, collegando edifici tenuti su da griglie metalliche ed elementi semi-trasparenti, una piramide al rovescio, rivestita da una copertura traslucida e l’iconica sfera geodetica di Richard Fuller.
Siamo negli anni ‘60 e questo è il Futuro che si para davanti al giovanissimo Bred Bird, regista dell’ultimo film della Disney-Pixar, gli Incredibili 2. La sua mente, a quell’epoca, fu bombardata da fumetti, serie tv e film come Flash Gordon, i Fantastici 4 – dei quali gli Incredibili avranno i poteri – Mission: Impossible, The Man from U.N.C.L.E. e Godzilla, oltre che dai parchi tematici costruiti da Walt Disney che, dà lì a poco, immaginerà i moduli della città del futuro, la EPCOT.
Da questo milieu eccezionale, nasce l’esplosiva esperienza degli Incredibili del 2004. Supereroi molto diversi dalla generazione Marvel o Dc (Batman, Spiderman, X-Man) o dalla scura graphic novel di Moore, Watchmen.  Supereroi depressi, allo sbando, costretti a reprimere i loro super poteri per rifarsi una vita. Gli Incredibili nascono dalle atmosfere sognanti degli anni ’60, più simili alla generazione di Superman e Capitan America. Super senza inibizioni o dilemmi interiori. Vogliono vivere i propri super poteri per aiutare il prossimo. I veri problemi degli Incredibili della famiglia Parr sono quelli di tutte le famiglie americane: la casa, il lavoro, i figli piccoli. 
Certo, a 14 anni dal primo episodio, la super mescola risultava un po’ usurata, anche se le atmosfere spy story e l’action hero, con le scenografie di Ralph Eggleston alla Batman di Adam West e il jazzy soundtrack di Micheal Giacchino stile John Barry (agente 007) rimangono marchio di fabbrica. Se nel primo film il villain di turno, Syndrome aveva stile, tecnologia e megalomania alla Goldfinger (minaccia missilistica ed enormi omnidroidi in stile kaijū) in questo ultimo lungometraggio targato Disney-Pixar, l’oscuro Screen Slayer rappresenta una minaccia più subdola. La sua tecnologia psichedelica schiavizza chiunque utilizzi uno schermo e anche se siamo in un 1962 parallelo e futuristico, senza tablet, pc e cellulari, la tv assume una trasbordante e immersiva dimensionalità.  Non è un caso che tv e monitor siano ovunque nei film di Bird: il Monitor Antenna di Tomorrowland, gli spot per la sicurezza anti-nucleare in Iron Giant, i cinegiornali ansiogeni e i film catastrofici. La tv sempre accesa è il sesto membro della famiglia Parr. Dispensa buoni consigli al giovane Dash – “i poteri mi definiscono come persona, l’ho sentito in TV!” – aggiorna continuamente Mr Incredibile Bob sulle azioni di sua moglie Helen-Elastigirl contro lo Screen Slayer, mette “in guardia” il piccolo Jack Jack, che confonde un procione in giardino con un rapinatore visto in un film. 
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Gli incredibili 2
È la tv ma sembrano i social di oggi. Forte di questa dipendenza, il villain può ipnotizzare chiunque e sarà Elastigirl che dovrà contrastarlo, non solo tra strade e cieli della downtown ma, soprattutto, tra gli indici di gradimento dell’audience. Solo così il magnate Winston Deaver, grande fan dei supereroi, potrà chiedere di cambiare la legge liberticida che rende illegali i super poteri. E che, tra l’altro, non servono per i risolvere gli esercizi di matematica di Dash, per affrontare gli umori adolescenziali della figlia Violet, per cambiare il pannolino al piccolo Jack Jack. 
“Non affidatevi ai supereroi, altrimenti sarete sempre schiavi di qualcuno”.  Le parole-manifesto dello Screen Slayer rafforzano il dubbio. A cosa servono i supereroi? Dopo la prima scena concitata, gli Incredibili non hanno catturato il Minatore, non hanno recuperato il bottino né evitato danni alla città. “Non dovevate fare niente!”. Ci sono le assicurazioni per ripagare danni e furti. 
Coloro che hanno super poteri o una super volontà di agire, insomma, farebbero meglio a starsene a casa. Ma cosa sono i supereroi in fondo? Dei guardiani contro i nostri impulsi autodistruttivi? Dei corpi intermedi, ormai inaccettabili per una società americana – e non solo – volta alla fine di ogni mediazione sociale, economica e politica? Dei santi protettori, pronti a salvare la gente lì dove i “bradipi del Congresso” non possono – o non vogliono – arrivare? Sono le nostre energie recondite, quelle della disperazione, dell’ultimo respiro contro l’inedia e la pigrizia? “La gente vuole comfort, non qualità”. Non vuole fare esperienze reali, solo guardarle dal proprio divano, grazie a Netflix o alla Disney, magari. 
Spesso i villain esprimono nei film i dubbi filosofici di Bird: vivere senza mediazioni, ricercare una libertà individuale ed estrema, oltre i limiti socialmente imposti. Qualcuno, commentando il film, ha citato Jean Baudrillard e Noam Chomsky ma noi scomodiamo Milton Friedman e Friedrich Von Hayek. E poco importa se tutto ciò conduce alla crisi e alla rivolta contro le élite, ai Trump e agli incantatori digitali delle masse. È il mercato, baby.
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Gli incredibili 2
Buone occupazioni, auto e casa di proprietà, collage per i figli. Poi arriva la bolla che scoppia nel 2008 e la classe media viene spazzata via. Magari si va a stare in un anonimo motel, magari sono le mogli a portare il pane, con i mariti a casa a fare i casalinghi. Ed è bene o male tutto quello che succede agli ormai credibilissimi Parr. 
L’ambiziosa Helen-Elastigirl vuole primeggiare nel suo nuovo super-lavoro anche se è lacerata dai sensi di colpa verso i figli lasciati a casa e dalla sfiducia verso il marito Bob, la cui super forza, (riflesso della vecchia classe operaia fordista e rimpiazzata in stile Jeremy Rifkin da forza lavoro più fluida ed “elastica”) non è certo utile con pappe, compiti e bizze dei piccoli. 
Ma gli eroi di Bird non mollano e fanno le nottate dietro ai ragazzi o accettano dolorosi compromessi per la sopravvivenza della famiglia. Altruismo, gioco di squadra, ottimismo. La classica Disney-Family. Soprattutto bianca e ambiziosa, senza considerare single, famiglie, coloured, allargate, gender come sottolineano le recenti accuse alla Disney per le aggressive acquisizioni nell’entertainment e il white-washing sui personaggi di Tiana e Pocahontas. 
Insomma Bird denuncia l’ipocrisia americana non solo dallo scranno sbagliato ma usando i suoi stessi target: ricchezza, successo, visibilità. La casa sulla collina in stile Palm Springs nella seconda metà del film non è, infatti, solo un altissimo gioco di interior design. Sembra un ammiccamento alle ambizioni di prestigio e affermazione della classe media. Ispirata alla Stohl House, alle creazioni di Mies van der Rohe, alle visioni di Ezra Stoller, la grande abitazione ha la forma del tetto a missile, simile alla Evans House del 1963 a New Canaan. Formazioni rocciose, palme e piante di bambù, piscinette e cascate in salotto, pareti in vetro, patio in pietra, divani e poltrone in stile Kroll, lampadario “Sputnik”. Uno snodo narrativo sfuggito alla sceneggiatura di Bird? D’altronde molte famiglie americane hanno compiuto il percorso inverso rispetto ai Parr, che fanno il grande salto grazie al magnate Deavor. Dalle grandi case ai motel sulle provinciali. 
Bird in fondo usa le stesse armi dello Screen Slayer. Dietro la dittatura degli schermi si cela uno stregone del visuale. È un ipocrita? No. Come i suoi personaggi vive tra aspirazioni e desideri contraddittori. 
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Gli incredibili 2
I riflessi dorati sulle lamiere dei mezzi in fiamme e d’argento sui super costumi, la forza materica di pietre, acqua, fogliame, legno ma anche tessuti, abiti e tappezzerie renderizzati. Una profondità visual delle superfici texturali mai raggiunti prima. Mentre un blue opaco e ipnotico colora i volti nelle tv a transistor, riverbera nei giochi d’acqua della piscina del Safari Court, nella tessitura dei capelli della supereroina Voyd, nella fattura del vestito del magnate Deaver. Una mistura di colori e forme, un tentativo di ricostituire una memoria fisica contro le odierne smaterializzazioni e virtualizzazioni del Futuro. La moto di Elastigirl in stile Gilera 175 Super Sport, la Corvette Rondine di Mr Incredibile, la sopraelevata in rigoroso Streamline, gli interni à la Alexander Girard e gli oggetti-sculture di Harry Bertoia, disseminati qua e là. Un “brivido modernista” che incoraggia una visione estetica corporea, sostanziale. Il rischio però è un certo feticismo passatista, un futuro scenografico per cultori e pochi eletti. E quindi?
In Tomorrowland, al piccolo Frank viene chiesto che utilità può avere un jetpack. Lui ci pensa e risponde: “A dare speranza”. Un bambino che vede volare un uomo con uno zaino è una cosa che gli infonde coraggio e speranza per il futuro. Quei lucenti mezzi meccanici del Futuro, senza un uomo, un pilota ricolmo di speranza, saranno solo ferraglia.
Domenico Sgambati 

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