08 novembre 2018

L’arte non può essere l’esterno delle cose

 
Una presa di posizione: ecco come si configura il lavoro di Mario Merz, oggi in mostra in un grandioso paesaggio di igloos all’Hangar Bicocca di Milano

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Guardando gli Igloos di Mario Merz all’Hangar Bicocca di Milano (fino al 24-2-2019), mi è venuto in mente Boris Groys e la sua idea di autonomia dell’arte: “un regno infinito di immagini dotato degli stessi diritti estetici” (Art Power, postmedia-books, 2012).  
Tutto il lavoro di Merz è intuizione, presa di posizione, visione. Penso a Voglio fare subito un libro (1985), dove la parola scritta commenta il fare artistico, e all’Igloo di Giap (1968), emblema di critica politica, storica, attraverso l’invenzione visiva. Leggendo “se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza”, oggi vedo anche i contrasti anonimi, individuali che avvengono non solo nella guerra. 
Io credo che l’arte metta al mondo soggetti “non biologici” con i quali i soggetti biologici (uomini e donne) entrano in relazione. Trentuno Igloos, raccolti all’Hangar da Vicente Todoli, potrebbero essere sua Città irreale infinita, dove avviene una relazione intersoggettiva prima tra loro e poi con chi li guarda.
Per Groys la varietà potenzialmente infinita delle immagini, comprese quelle mediatiche, è il presupposto per esercitare “pari diritti all’interno delle diseguaglianze”. Io preferisco parlare di differenze perché si riscontrano anche nell’uguaglianza. Comunque accettare che tutte le immagini abbiano pari diritti estetici scombina le gerarchie, anche del sistema visivo-informatico. 
Caravaggio aveva tenuto insieme la figura della Madonna e i piedi scalzi, sporchi, dei pellegrini. Una critica evidente al potere della Chiesa, ma anche una discesa dell’arte tra le disparità. Oggi le disparità sono provocate dalle immagini. Non tutti “vestono Prada”, come dice un famoso film, ma tutti fotografano, fanno selfie, ed è probabile che ognuno creda nei diritti estetici documentati dalle proprie immagini.
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Mario Merz, Igloos, vista della mostra
La gerarchia temporale è uno dei valori dell’arte, come riconoscerli nell’infinita progressione dei diritti estetici? Il salto sta nella fine della convezione prospettica rinascimentale, dove al centro dell’immagine c’era la tensione verso l’infinito divino. Oggi al centro ci sono io, ci sei tu. Quindi, per entrare nel regno di cui parla Groys, l’esercizio critico di chi crea e di chi osserva sta nell’orizzontalità dinamica delle differenze, piuttosto che nella verticalità della verità divina o della gerarchia artistica.
Gli Igloos all’Hangar ne sono una prova. La sfida è applicare questo comportamento a ogni immagine, metterla a confronto con la comunicazione, dove la frequenza è altissima, ma la diversità limitata.
Duchamp ci ha insegnato a trovare l’arte spostando l’oggetto d’uso nel museo, coltivando la polvere invece di pulirla. Merz scrive: “Parto dall’emozione che mi dà un oggetto artigianale e cerco di appropriarmi manualmente della sua struttura finché lo sento vivere all’unisono con la mia struttura fisica, a questo punto interseco la forma con l’immagine di un’energia diversa come, ad esempio, un tubo al neon”. “Se la natura è natura, noi cosa siamo? L’arte cosa è? La natura non è forse la crescita delle cellule in sofisticate antinomie, come disegni complicati?” (Voglio fare subito un libro, p. 72 e 46). Uso come risposta le parole del fisico Carlo Rovelli: “Più che un disegno sulla tela, il mondo è una sovrapposizione di tele, di strati, di cui il campo gravitazionale è solo uno fra gli altri” (L’ordine del tempo, 2016, p.69)
Gli Igloos forniscono l’immaginario per un orientamento siderale, e nello stesso tempo parlano della facoltà di disegnare l’universo a partire dalla terra, dagli alberi, dagli animali, dalle fascine, dai vetri, dai giornali, dai neon, con i quali Merz li ha costruiti. La loro visione prospettica si distacca dalla convenzione rinascimentale, apre il dialogo con la scienza, da Fibonacci a Carlo Rovelli, crea un collegamento con un significato garantito non dalla divinità, ma dalle rotte cognitive della storia e del presente. 
Non significa portare sullo stesso piano Merz, Lorenzo Lotto o Tiziano, ma inserire il legame tra luogo della visione e luogo della fede nello sviluppo di diverse convenzioni prospettiche durante la lunga marcia creatrice umana. 
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Mario Merz, Igloos, vista della mostra
Merz esce dalle chiese e dai luoghi sacri e crea Luoghi senza strada dove ognuno deve usare il libero arbitrio di cui dispone per orientarsi, tra le “tele sovrapposte dell’universo” (Rovelli). 
All’Hangar, in una specie “democrazia diretta”, gli Igloos aggiungono “un elemento”, come direbbe Malevic, per ragionare sull’attuale crisi della democrazia rappresentativa. La differenza di ognuno di loro pone, infatti, la domanda sul concetto di rappresentatività. 
Finché li vedevamo singolarmente, erano un segno del linguaggio di Merz, una volta riuniti, il nucleo fondativo sta nelle differenze e nella loro capacità di interloquire, piuttosto che nella rappresentatività del linguaggio. Tant’è che all’interno la luce proietta una straordinaria radiografia della loro “ossatura”, assimilabile a quella di corpi umani, astrali. Mentre da ogni angolo di visuale c’è una costante variazione di disegni e prospettive. 
Architettura fondata nel tempo, architettura sfondata nel tempo (1981, Castello di Rivoli), con i suoi vetri colorati, il dipinto di un animale preistorico attraversato da un tubo di neon e un cumulo di fascine, entra in congiunzione con i due igloo addossati l’uno all’altro, Chiaro oscuro /oscuro chiaro (1983- Mart Rovereto), dove le fascine disegnano quello oscuro, mentre vetri fissati con morsetti e pani di argilla compongono quello chiaro. 
Poi la strada si divarica. Ecco il triplo igloo, uno dentro l’altro, Senza Titolo (1984, MAXXI, Roma), emerge una luce generata dalla propria interna trasparenza. Rovelli mi torna in mente. Davanti alla grande massa di Noi giriamo intorno alle case o le case girano intorno a noi? (1977) c’è un sentiero di vetri infranti, percorso da una luce accecante, nel 1987 è stato esposto nella Cappella de La Salpetrière a Parigi, appaiono domande, discussioni, testi cruciali, compreso “Sorvegliare e Punire” di Foucault sulla  storia reale e simbolica del carcere de La Salpetrière. Lo sguardo cade poi su Tenda di Gheddafi (1981, Castello di Rivoli): se pensiamo alla Libia attuale c’è preveggenza, ma soprattutto l’inesauribile conflitto tra dominio e democrazia. Hearded centuries to pull up a mass of algae and pearls (Secoli ammucchiati per tirar su una massa di alghe e perle) è dedicato a Ezra Pound, una rete metallica dipinta di zolfo, ricoperta da vetri fissati da morsetti, ha all’interno una radiografia riflessa, magnifica. 
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Mario Merz, Igloos, vista della mostra
Camminando tra questi mondi, storie, percezioni, prospettive appare la visione di differenze reali che dialogano e resistono. Valgono per l’arte, per gli uomini, le donne, le democrazie, i sentimenti. Nei suoi Igloos il dualismo oppositivo classico, uomo-donna, soggetto-oggetto, vero-falso, si traduce nell’infinita mobilità delle relazioni nel conflitto, nel fascino amoroso, nella discussione politica. 
Per millenni, il genere neutro è stato lo stratagemma patriarcale per avvallare la supremazia maschile e annullare la differenza dell’altro da sé. Una svista fatale che ha sanzionato i processi sociali, affettivi, intellettuali. 
Oggi, dopo 50 anni di femminismo, il valore della differenza nella progressione dei diritti sociali, politici, culturali, estetici comincia a portare i suoi frutti: le donne nell’arte non sono più eccezioni; mentre la differenza è il punctum che qualifica le visioni, l’autonomia, la dialettica di Mario Merz. 
La forma organica dell’igloo riporta all’unità di stomaco e cervello, Merz, definendolo “un ventre” dilata l’immaginazione artistica alla procreazione. 
Chiudo con le sue parole: La vita quotidiana è emozionante perché è appesa a un filo che lega la terra al sistema copernicano, poi einsteiniano, che continua a svolgersi per ogni oggetto o corpo della terra. L’arte non può essere l’esterno delle cose. Una malattia nervosa o una rivoluzione nascosta. Salire allo stomaco, scendere al cervello. Formare e abbandonare una forma. (“Voglio fare subito un libro”- passim). 
Francesca Pasini

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