10 febbraio 2019

Il ritorno sovietico: realtà o burla?

 
Bellezza e miseria dell'animo umano, ovvero “Dau”. Resoconto dall’interno dell'evento culturale più controverso della stagione parigina

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Bluff, reality show o semplicemente geniale, il progetto artistico Dau non smette di far parlare di sé, e dopo il no categorico di Berlino arriva in anteprima internazionale nella Capitale francese, per proseguire poi a Londra. 
Che cos’è DAU? Molto di più di una biografia su Lev Landau (1908-1968), fisico sovietico e premio Nobel nel 1962. Dau è un progetto multimediale e pluriennale che ha coinvolto, dal 2009 al 2011, oltre 400 persone che hanno deciso di abbandonare famiglia e lavoro, per immergersi nel regime totalitario dell’U.R.S.S. e vivere un’esperienza unica e inquietante. 
Il demiurgo del progetto? Il cineasta russo Ilya Khrzhanovsky che, attraverso la vita di una collettività che vive nell’istituto di ricerca a Kharkov in Ucraina, ci fa rivedere l’Unione sovietica del periodo che va dal 1938 al 1968, qui ricostituita fino al minimo dettaglio tra mobili, appartamenti e laboratori scientifici, negozi e via dicendo. 
I partecipanti, a questa sorta di esperimento antropologico, vestiti con abiti e accessori rigorosamente dell’epoca, pare che non abbiano utilizzato telefonini o altri dispositivi che potessero ricondurli alle realtà rispettive. Un’immersione totale in un mondo parallelo, che tra vere nascite, separazioni e nuove relazioni sentimentali, ha restituito 700 ore di riprese e i 13 lungometraggi riproposti a Parigi al Centre Pompidou, al Théâtre de la Ville e al Théâtre du Châtelet, due spazi questi che sono normalmente chiusi per lavori di ristrutturazione. Il progetto ha visto una partecipazione eterogenea di premi Nobel, professionisti vari, artisti come Marina Abramović, Romeo Castellucci, Boris Mikhailov, Peter Sellars e Brian Eno, mentre nel ruolo di Dau troviamo il direttore d’orchestra Teodor Currentzis, e in quello della moglie Nora, l’attrice Radmila Shchyogoleva. Come assistere a Dau? 
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DAU

Bisogna avere diciotto anni per comprare, non un biglietto, ma una visa di 6 ore, di 24 ore o una carta valida per la totalità della durata dell’evento, cioè fino al 17 febbraio. Per ottenerlo si deve non solo pagare, ma rispondere a un questionario psicometrico online che delinea un percorso personalizzato. Infatti si accede agli eventi solo per invito tramite un telefonino, (il proprio viene depositato all’ingresso), non si sceglie e né si conosce in anticipo la programmazione. Dau accoglie proiezioni cinematografiche, concerti e conferenze, archivi dei film, “confessionali” con ascoltatori attivi per intraprendere un viaggio interiore, negozi e anche un sex bar, manichini di cera creati in situ che riproducono abilmente i personaggi delle pellicole, appartamenti in stile URSS con sciamani che compiono riti di purificazione, e infine opere d’arte rappresentative della scena underground dell’URSS della fine degli anni ’50, parte della collezione del Pompidou. Un’organizzazione complessa, che ha causato diversi problemi tecnici e ritardato l’apertura che si è svolta tra polemiche, disagi e frustrazioni. 
Viene da chiedersi se questo trambusto non faccia parte di questa grande performance che miscela bene e oltremodo finzione e realtà, forse un clin d’oeil a La guerra dei mondi Orson Welles? Il percorso è ritmato da suoni, odori e parole trascritte sui muri o che nominano sale: ansietà, orgasmo, lussuria, isteria, sottomissione, tradimento, propaganda, dipendenza e così via, un insieme di elementi che rinforzano quest’esperienza immersiva nel totalitarismo, e che rimandano ai film, perno dell’evento. 
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DAU
Privi di titoli, salvo per un numero che li identifica, questi sono proiettati non cronologicamente, e ci parlano di Dau, il capo del dipartimento di fisica teorica dell’istituto e dei suoi residenti, che vivono sotto il giogo di meticolosi burocrati e freddi funzionari del KGB. Nei films troviamo una buona fotografia, affascinanti personaggi costruiti a tutto tondo, storie che si sviluppano per lo più senza flash-back, una camera che attraverso panoramiche orizzontali umanizza gli ambienti, o che portata in spalla insegue i personaggi. Un tipo di approccio che rimanda, anche se da lontano, al cineocchio di Dziga Vertov, cineasta e teorico sovietico che voleva cogliere la vita sul fatto, senza maschere. 
Il sistema del regime lo ritroviamo a scala ridotta nella vita dell’istituto che mostra, senza fronzoli e a beffa di un linguaggio politically correct, umiliazioni verbali e fisiche, scene di violenza, tradimenti, denunce e interrogatori disumani, crisi di pianto e sbronze, scene di sesso, in cui niente sembra simulato. Insomma, l’epopea Dau e il fascino inquietante di un evento proposto su larga scala che riesce a sorprendere anche i più disincantati. Per farla breve, Dau è un gioco da prendere sul serio o una burla sulla nostra vituperata e acclamata privacy? Per saperne di più andate su www.dau.com. O compratevi la visa.
Livia de Leoni

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