14 maggio 2019

POST BIENNALE/ L’OPINIONE

 
GUARDA E NON VOLTARTI
Distopica, affascinante e proiettata nel futuro: riflessioni sulla mostra di Rugoff e sul “best of” veneziano

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Una Biennale distopica ma stimolante, che potrebbe essere raccontata nello straordinario racconto di Ray Bradbury The Veldt, pubblicato nel 1950, dove due bambini fanno sbranare dai leoni i loro genitori nella nursery, una stanza della loro casa completamente automatizzata, chiamata The Happylife Home, che permette di proiettare i familiari in luoghi e atmosfere di realtà virtuale, come la savana africana dove George e Linda perdono la vita a causa dei loro pargoletti, Peter e Wendy. 
La tecnologia è affascinante ma può essere anche mortale, profetizzava a metà del secolo scorso Bradbury, e Ralph Rugoff ci invita a riflettere sullo stesso tema. May you live in intersting times è una mostra con una scrittura curatoriale molto accurata, che si dipana tra la collettiva ai Giardini, che funziona quasi come una sorta di sofisticata introduzione all’Arsenale, dove le opere degli stessi artisti si susseguono in maniera fluida e naturale, dialogando tra loro con l’aiuto di un allestimento funzionale, con pareti di legno chiaro dai colori naturali. Sembra quasi il secondo capitolo della Biennale di Okwui Enwezor All the world’s futures, che parlava del futuro ma era molto radicata nel passato. A differenza di Enwezor Rugoff ha invitato solo artisti viventi e non ha indicato riferimenti nel Ventesimo secolo: qui siamo nel presente e ci affacciamo verso il futuro, senza voltarci indietro. Così il racconto viene espresso con linguaggi diversi, e introdotto dalle inquietanti macchine celibi di Sun Yuan e Peng Yu, che con i loro movimenti violenti e scattanti sembrano precludere ad un mondo dominato da una robotica sadica e crudele. 
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Teresa Margolles La Búsqueda (2), 2014 Intervention with sound frequency on three glass panels 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times

Un grido d’allarme arriva da Hito Steyerl: le sue installazioni ci avvertono dei pericoli dell’utilizzo indiscriminato dell’IA, l’intelligenza artificiale, in maniera consapevole e diretta. Ancora più inquietante No history in a room filled with people with funny names 5, la videoinstallazione a tre canali di Konakrit Arunanondchai e Alex Gvojic all’Arsenale, che unisce in un unico percorso visivo cronaca, spiritualità e ossessione nella Thailandia di oggi, in un immaginario degno di The Veldt. Nella stessa linea, ma con una complessità a tratti oscura, si pone Old food, l’installazione presentata da Ed Atkins all’Arsenale, dove spicca l’opera di Ryoji Ikeda data-verse, capace di rendere il trattamento dei big data una saga di immagine altamente seduttive. Una visione dichiaratamente politica domina alcune delle opere più interessanti della Biennale, come il film di Kahlil Joseph BLKNWS o 48 war movies di Christian Marclay (meno riuscito di The Clock ma comunque efficace), i collage di Frida Orupabo, la videoinstallazione Synchronicity dedicata alla vita degli homeless di Apichatpong Weerasethakul e Tsuyoshi Hisakado e le opere video di Lawrence Abu Hamdam, che avrebbe meritato una menzione. Senza dimenticare l’installazione sonora di Shilpa Gupta all’Arsenale, dedicata alla censura; le terribili immagini scattate da Soham Gupta (stesso cognome indiano, ma non sono parenti) negli slums di Calcutta; le fotografie di Rula Halawani e gli straordinari ritratti in bianco e nero di Zanele Muholi. A proposito di menzioni, nulla da eccepire alle indicazioni della giuria internazionale che ha giustamente nominato due artisti impegnati e consapevoli come Teresa Margolles e Otobong Nkanga ed ha conferito il Leone d’Oro all’afroamericano Arthur Jafa. Sul versante ludico e positivo del futuro spiccano le installazioni di Nabuqi, i videogames di Jon Rafman e gli ambienti colorati e psichedelici di Alex Da Corte e Ad Minoliti. Interessanti anche le sculture, che possiedono spesso un’eleganza formale vicina al design, come nelle opere di Haris Epaminonda, vincitrice del Leone d’Argento. Anche qui molti lavori convincenti, tra i quali spiccano le opere di Carol Bove, Liu Wei, Jean Luc Moulène, Andra Ursuta e soprattutto Gabriel Rico, particolarmente lirico nel suo minimalismo di matrice poverista. 
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Apichatpong Weerasethakul with Tsuyoshi Hisakado Synchronicity, 2018 Single channel video, sound, lightbulbs, projector shutter, microphone, aluminium 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times Photo by: Italo Rondinella Courtesy: La Biennale di Venezia

Al di là della mostra di Rugoff, i padiglioni nazionali nell’insieme non hanno dimostrato di possedere la stessa forza visionaria e disturbante, a parte alcune eccezioni.Primo tra tutti il padiglione lituano, incastonato in un’area militare dell’Arsenale , capace di proiettare il visitatore in quell’atmosfera malinconica tipica dei paesi dell’Europa dell’est: la spiaggia illuminata da una luce nordica racconta l’umanità in tutta la sua disarmante quotidianità della “vacanza”, che aveva già colpito Georges Seurat nel suo capolavoro Une dimanche à la Grande Jatte. 
Così, dopo la brutalità sottile e perversa del Faust di Anne Imhof (Leone d’Oro 2017) quest’anno il premio del Padiglione spetta ad un’altra opera performativa collettiva: Sun & Sea (Marina). Opera lirica per 13 voci firmata da Rugilé Barzdziukaité, Valva Grainyté e Lina Lapelyté e curata dalla giovane Lucia Pietroiusti, all’insegna di una performance lirica e sognante, piena di messaggi d’allarme per l’incerta salute del nostro pianeta. Con buona pace di Laure Provost, che ha realizzato il miglior padiglione ai Giardini con il suo graffiante, sottile ed ironico Deep See Blue Surrounding You, una video installazione da non perdere (nonostante le code all’ingresso) e di Ghana Freedom, il padiglione del Ghana all’Arsenale, disegnato dall’architetto David Adjaye, che riunisce i migliori artisti del paese africano, tra i quali spicca uno splendido video di John Akomprah. Infine, tra i padiglioni ai quali prestare attenzione, suggerisco Moving Backwards, il video di Pauline Boudry e Renate Lorenz (Svizzera), la scultura Flight di Roman Stanczak (Polonia), il video Heirloom di Larissa Sansour (Danimarca), l’installazione video di Driant Zeneli Maybe the cosmos is not so extraordinary (Albania) e, last but not least, le opere di Liliana Moro (Italia).
Ludovico Pratesi 

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