22 maggio 2019

Viaggio a Grand Hotel Europa. Alex Urso ci parla della prossima tappa del suo progetto

 

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Ai sabati d’agosto dell’infanzia di Alex Urso, passati sulla costiera adriatica, le colline marchigiane facevano da sfondo. Su queste, nei suoi ricordi è ben nitida l’immagine dell’Hotel Europa, una struttura alberghiera costruita negli anni Ottanta, in un periodo di grande crescita economica e forte urbanizzazione. È a questa vicenda personale che si lega il nome di GRAND HOTEL EUROPA, il progetto itinerante dell’artista che, attraverso un percorso visuale, riflette e vuole far riflettere su quanto il sentimento con cui si guarda all’Europa sia cambiato, diventando col tempo più ostile, e che si propone di sensibilizzare anche sulla questione migratoria. 
A spiegare tutto questo è stato lo stesso artista, a cui abbiamo fatto qualche domanda in vista del 23 maggio, data di apertura della sua personale alla Baltic Gallery of Contemporary Art di Ustka, in Polonia che, dopo una prima esperienza in Serbia, rappresenterà l’evento finale della seconda tappa del suo progetto. 
GRAND HOTEL EUROPA ha già fatto scalo in Serbia e Polonia: perché questi due paesi? 
«Volevo realizzare il progetto in posti che avessero qualcosa da dire in merito al tema. Dal 2015 la Serbia è diventato un grande “contenitore” di profughi, sostenuto da importanti finanziamenti da parte degli stati europei, decisi a mantenere le migliaia di richiedenti ospitalità lontani dai confini dell’Europa centrale e mediterranea; una specie di paese-serbatoio, in cui i migranti versano in condizioni estremamente precarie. L’impegno da parte della Serbia nel limitare il transito dei migranti verso l’Europa, peraltro, rientra in una strategia precisa: le richieste europee di contenimento dei profughi nei confini serbi sono rispettate dal governo locale solo come moneta di scambio: è un’accoglienza di facciata messa in atto per attingere ai contribuiti ed accelerare il processo di entrata della Serbia nell’UE. Migliaia di migranti sono visti, insomma, come pretesto all’interno di un gioco di interessi ben più ampio. Credo che sia una situazione che descrive bene il clima inumano e opportunista intorno alla crisi dei migranti. Per questo ho deciso di partire da qui». 
E la Polonia? 
«La Polonia rappresenta per l’Europa una scommessa persa: un Paese che per anni ha beneficiato di cospicue sovvenzioni europee, ma che ora volta le spalle alla comunità, in preda al delirio sovranista. Basta fare un giro per Varsavia per capire il peso dei finanziamenti europei nel Paese, utilizzati in maniera sostanziale nell’ammodernamento delle infrastrutture, non solo nella capitale. Dal 2007 al 2013 la Polonia ha ricevuto fondi per 74 miliardi di euro, ed è principale destinatario di fondi strutturali per la prospettiva 2014-2020, con 82,4 miliardi di euro. Questi dati però non sembrano bastare ai sostenitori del leader ultra-conservatore e antieuropeista Kaczyńsky: avviato il motore dell’economia, dopo decenni di stallo, la Polonia oggi è un paese che gonfia i muscoli contro Bruxelles. Quella polacca, peraltro, è una realtà che ben conosco, dato che dal 2012 al 2018 ho vissuto a Varsavia; il pericolo sovranista all’interno del paese è percepibile e diffuso, e gli effetti sono ormai una triste realtà che ho sentito il bisogno di indagare in maniera approfondita in questa nuova occasione». 
Che cosa ti aspetti da GRAND HOTEL EUROPA? 
«Quando inizio un lavoro non sempre ho delle aspettative precise. Spesso parto dal bisogno personale di confrontarmi con un tema, e questo è un caso del genere. Direi che GRAND HOTEL EUROPA sia un progetto partito da me, il tentativo di definire la mia posizione verso alcune questioni del tempo in cui vivo. Prima di cominciare la produzione delle opere ho speso settimane a documentarmi: il tema è ampio e avevo bisogno di andare a fondo, cercare numeri e nomi per provare a puntare il dito verso qualcosa. Alla base, quindi, c’è una domanda personale: che posizione ho io davanti al casino che stiamo vivendo? Da qui è partito innegabilmente qualcosa di più universale, che tocca anche la gente che si relaziona alla mia opera. In questo caso il riscontro migliore sarebbe quello di smuovere la coscienza di chi si confronta col mio lavoro: proprio per questo sto scegliendo in modo mirato i posti in cui far viaggiare il progetto, anche nel tentativo di confrontarmi con delle comunità particolari e periferiche». 
In che modo avviene questo confronto? 
«Ti faccio un esempio: il centro d’arte che mi sta ospitando è uno spazio enorme e bellissimo, costruito sulla costa baltica interamente grazie a finanziamenti dell’Unione Europea, il cui logo si trova ovunque: sedie, scrivanie, ascensore, lavandini… Tre piani, tra sale espositive, laboratori e studi per artisti, finanziati dall’Europa per sanare le carenze strutturali di un’area distante dai grandi centri nazionali. Ambientare qui il progetto vuole anche ricordare a tutti coloro che verranno a visitare la mostra che, senza l’UE, questo centro non sarebbe mai esistito. Non è un dato che offre una soluzione al problema, certo, ma può stimolare chi mi ascolta ad una riflessione più ampia e realistica». 
Hai già scelto la prossima meta? 
«La prossima tappa sarà l’ultima, ma è un po’ presto per dirti dove. Sono in attesa di risposte. Fingers crossed!». (Lucrezia Cirri)

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