07 settembre 2017

Fino al 5.XI.2017 Un’eterna bellezza. Il canone classico nell’arte italiana del primo Novecento Mart, Rovereto

 

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Una mostra ambiziosa già nel titolo (altrettanto quanto quella curata da Claudio Spadoni appena un anno fa a Ravenna “La seduzione dell’antico”), che si snoda temporalmente tra il 1912 con un quadro metafisico di De Chirico e il 1938 con una natura morta di Cagnaccio di San Pietro, pittore che registra il più gran numero di opere: 12 su un totale di 120.
E poi Funi, Sironi, Wildt, Carrà, Donghi, Campigli, Oppi, De Pisis, Sironi, Martini, Morandi, Marini, Casorati, quasi attraversando, se non proprio uno stile, senza dubbio un’atmosfera italiana che rientra nelle correnti del Novecento e dei Valori plastici, “la più alta espressione del ritorno all’ordine in Italia”, come sottolinea Elena Pontiggia in catalogo.
Complesso trattare il tema dell’eterna bellezza in una tradizione che sembra volersi riprendere dalle ansiose e altisonanti rotture avanguardistiche di inizio XX secolo. Seppure classicità e bellezza sembrano inseparabili nelle opere in mostra, riunite in sette gruppi tematico-iconografici (segno che né la bellezza né il classico bastano a etichettare artisti forse elettivamente affini, ma intimamente così diversi), i problemi messi in gioco da ognuno degli artisti non sono sovrapponibili. Sembra di intuire forse di più e meglio di quanto compresso nel titolo, se si riescono a vedere strade parallele, forme temporali non coincidenti, richiami e debiti a passati diversi, questioni tecniche non scambiabili tra opera e opere, tra artista e artista. I busti di Wildt non lasciano trapelare niente dei silenzi intimi di quelli di Martini, la lucidità artificiale e magica delle scene di Donghi cozza contro quella fredda e obiettiva di Cagnaccio (si veda Primo denaro del 1928, con tanto di parcella bene in vista per la prestazione di una prostituta). Né l’espressionismo soffocante delle periferie di Sironi respira la stessa aria pura dei paesaggi di montagna di Oppi né le nature morte congelate di Severini possono trovarsi sullo stesso tavolino di quelle tirate in punta di fioretto di De Pisis. 
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Eterna Bellezza, vista della mostra
Per Baudelaire solo la moda (cioè il bello che appartiene al tempo nel momento in cui viene prodotto) può essere eterna mentre la bellezza, più pertinente al mondo del sogno, risulta essere invece un’aspirazione votata al fallimento piuttosto che al successo. Eppure sembra proprio questa la visione italiana più tipica alla nostra storia, in cui un nudo ne ricorda sempre e comunque uno antico e un concerto di Casorati uno campestre di giorgionesca memoria. 
Il tempo esposto in questa mostra è sospeso e forse appunto quello della memoria, dell’antico introiettato costitutivamente nella cultura italiana, al di là dei proclami di un ritorno all’ordine che negli anni Venti fu condiviso persino in ambito internazionale (da Picasso alla Neue Sachlickeit).
Se capolavori come L’idolo del prisma di Ferrazzi del 1925, La moglie del poeta di Martini del 1922 o Donne per le scale di Donghi del 1929 possono essere presi a dichiarazioni di intenti oltre che di poetica personale, lo si può fare perché vivono in una stessa atmosfera, parola forse troppo ancora legata al linguaggio comune, vaga ed evocativa, ma che possiamo provare a far rientrare in una vera e propria categoria estetica, come sembra suggerire inconsapevolmente questa mostra.
Marco Tonelli
mostra visitata il 2 luglio
Un’eterna bellezza. Il canone classico nell’arte italiana del primo Novecento
MartRovereto
Corso Bettini, 43 – 38068 Rovereto (TN)
T. 800 397760 – T.+39 0464 438887
www.mart.trento.it

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