15 novembre 2018

IPERTEATRO 2018

 
Secondo appuntamento per raccontare il teatro contemporaneo “ad alta intensità”. Protagonista il teorico e drammaturgo Davide Carnevali
di Giulia Alonzo

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Il secondo protagonista di questa serie è Davide Carnevali, teorico di teatro e drammaturgo, nato a Milano nel 1981 e poi espatriato a Barcellona. Vive e lavora tra Spagna, Italia e Germania. Recente vincitore del Premio Hystrio alla Drammaturgia, è uno dei pochi autori italiani richiesto in Europa. I suoi testi sono tradotti in catalano, estone, fiammingo, francese, greco, inglese, polacco, portoghese, rumeno, russo, spagnolo, tedesco, ungherese. In Italia sono ora pubblicati da Einaudi.
Chi è Davide Carnevali?
«Una persona che scrive di teatro e per il teatro: sono un autore e anche un accademico, negli anni ho cercato di coniugare e portare avanti parallelamente i due aspetti, da un lato una ricerca teorica intorno al teatro e dall’altro una pratica drammaturgica. Ho fatto il dottorato in Teoria del Teatro all’Università di Barcellona e vedere e studiare il teatro per questioni accademiche mi è servito nella pratica e nella scrittura: la destrutturazione della linearità cronologica, dell’identità del personaggio, della coerenza strutturale della fabula che analizzavo nei testi per le mie ricerche, le attuavo poi nella stesura dei miei lavori. Queste due nature, pratica e teorica, sono sempre coesistite e si sono alimentate l’una dell’altra».
Hai appena ricevuto il premio Hystrio per la drammaturgia. Tradotto in molte lingue e rappresentato tra Germania, Francia e Sud America. In Italia come vieni percepito?
«La maggior parte dei miei testi è stata allestita prima all’estero e poi in Italia. Sono andato via tredici anni fa e ho iniziato la mia carriera grazie al Theatertreffen di Berlino che mi ha supportato come autore traducendo e promuovendo i miei lavori e aiutandomi a trovare un agente in Germania. Poi la Maison Antoine Vitez, il centro di traduzione francese di opere di lingua non francofona, ha tradotto alcuni dei miei testi e questo mi ha consentito di circolare più facilmente in Europa. Di conseguenza la percezione della mia figura in Italia è cambiata e ho iniziato a collaborare di più con i teatri stabili italiani, prima Roma, poi Torino e ora più strettamente con ERT».
Cosa vuol dire scrivere di e per il teatro nel 2018?
«Non so se scrivere nel 2018 sia diverso dallo scrivere in altre epoche. Il teatro si nutre del rapporto tra la parola e la materializzazione del corpo sulla scena, del corpo davanti al pubblico e davanti al corpo dello spettatore. Il teatro è l’unica delle arti in cui lo spettatore ha esperienza diretta di questo incontro/scontro, ovvero tra l’immagine mentale che lo spettatore si crea di questa parola e la sua realizzazione fisica in qualcosa che avviene davanti a lui. Questa materializzazione può andare in contrasto con la parola che l’ha creata e anche con l’immaginario dello spettatore. Con il vantaggio di dimostrare l’insufficienza del linguaggio nello spiegare la realtà. Per me la drammaturgia è lo scrivere una parola che si sfalda o scrivere per qualcosa che non si realizza pienamente. E come drammaturgo la consapevolezza di questa insufficienza del linguaggio verbale è lo stimolo che mi porta a scrivere per il teatro anziché di narrativa o altro».
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Davide Carnevali, Variazioni sul modello Kraepelin
Quando inizi a scrivere pensi già a una possibile messinscena o una relazione con il pubblico?
«La maggior parte dei testi ha una doppia natura che deve convivere nell’opera teatrale e nella messa in scena: da un lato cerca di conservare la propria autonomia di prodotto letterario, dall’altro lato c’è però il rapporto tra autore e testo che resta sempre aperto e passibile di modifica sulla scena. La maggior parte dei miei lavori li ho pensati per un possibile allestimento e per una fruizione in più contesti linguistici e culturali. Non ho mai pensato all’Italia come mio primo e unico riferimento per la creazione spettacolare. Anzi, l’idea è sempre stata quella di dare più ampiezza possibile alla vita dell’opera. Altri lavori invece, come quelli scritti su commissione, nascono con una precisa idea di messinscena, come Ein Porträt des Künstlers als Toter che ha debuttato alla Staatsoper di Berlino a inizio giugno o il caso di Maleducazione transiberiana al Teatro Franco Parenti, entrambi diretti da me. Qui il mio approccio alla scrittura è stato completamente differente perché sapevo già che il testo l’avrei messo in scena io, con quali attori, con quali problemi tecnici e di produzione e con quali budget e tempi di prova. E questo ovviamente influenza la scrittura».
Ma cambi il testo quando lavori in scena? O lo consenti?
«Non sono mai stato invasivo, intervengo se mi si chiede una consulenza, ma è successo di rado. Quando lavori con gli attori capisci quanto il testo funziona, se ci sono problemi di drammaturgia o se all’attore, per la sua formazione o per le sue caratteristiche tecniche, non conviene far dire certe battute. In base a questi elementi si arriva a un accordo senza cambiare o snaturare il significato del testo. Poi è l’attore che deve difenderlo davanti al pubblico: il testo deve favorire lui e la sua performatività. Per quanto riguarda i testi all’estero, collaboro strettamente con i miei traduttori per le lingue che parlo, come il francese, il tedesco, il catalano e lo spagnolo. Nelle altre lingue non conosco il risultato effettivo e mi fido dei traduttori».
Leggendo alcuni tuoi testi si sente l’influenza di Aldo Nove…
«Aldo Nove è un autore che ho letto molto quando ho iniziato a scrivere. Ho iniziato a scrivere da adolescente e verso i quindici anni ho partecipato al Premio Chiara che dava la possibilità di seguire alcuni laboratori tra Luino e Varese condotti dai Cannibali [un gruppo di scrittori che Einaudi ha pubblicato in una celebre raccolta curata da Daniele Brolli, come Aldo Nove, Raul Montanari, Tiziano Scarpa, ndr.]. La scrittura di Aldo Nove mi ha sempre affascinato molto: vera, carnale che scava nelle viscere più che nell’intelletto, estremamente ironica e seria allo stesso tempo. Restituisce un ritratto grottesco delle situazioni, mi faceva ridere di argomenti sui quali, continuando a riflettere, non c’era nulla da ridere. Questo uso ludico del linguaggio ha decisamente influenzato il mio modo di concepire la scrittura per il teatro. Penso anche a Benni, Elio o Alessandro Bergonzoni e il loro umorismo intelligente; o a quello di molti comici di Zelig, Antonio Albanese, Paolo Rossi… Uno dei problemi che mi sono posto inizialmente era come sfruttare questi meccanismi che si rivelavano perfetti per lo sketch, adattandoli a una proposta di teatro apparentemente “serio”, scomponendo sia il linguaggio borghese sia la drammaturgia classica e mettendo questo tipo di comicità popolare al servizio della riflessione critica».
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Davide Carnevali
Ma è la chiave per parlare del contemporaneo?
«Il grottesco o l’immagine deformata sono una buona chiave per parlare del contemporaneo, in qualsiasi epoca. L’autore spagnolo di fine Ottocento Ramón del Valle Inclán, inventore del genere dell’Esperpento, diceva che il miglior modo di esprimere la realtà è deformarla, come se la si mostrasse nel riflesso in uno specchio concavo, in una mistura tra il grottesco, la tragedia e la commedia. Per me questa visione è sempre stata un faro».
A cosa stai lavorando ora?
«Nei prossimi tre anni con ERT, oltre ad alcuni progetti di produzione, farò un lavoro per le scuole, piccoli spettacoli a partire da temi di filosofia che i ragazzi trattano durante l’anno; si parte quest’anno con Aristotele e il concetto di rappresentazione. Con la coproduzione del Teatro di Roma, ERT e Stabile del Friuli sto lavorando sulla trilogia del teatro nel teatro di Pirandello con la regia di Fabrizio Arcuri. Quindi alcuni progetti sono solo di scrittura, mentre altri comprendono anche l’allestimento, indagando sulle possibilità di messinscena di un testo senza seguire un’idea di regia classica perché io non sono un regista. Altri invece sono di collaborazione alla creazione, come con Teatrino Giullare, che fa teatro di oggetto, maschera e figura, e che coadiuverò nella loro messa in scena del mio testo Menelao. Continuerò poi a lavorare con Fabrizio Martorelli a partire dal monologo Peppa Pig prende coscienza di essere un suino, che diventerà un lavoro autonomo staccandosi da Maleducazione Transiberiana. All’estero ho un paio di progetti con il Teatre Nacional de Catalunya e con il gruppo con il quale ho lavorato a Berlino».
Giulia Alonzo
Prossime date:
Ritratto di donna araba che guarda il mare, regia di Claudio Autelli
26 novembre 2018 – Lugano – Teatro Foce 
29 novembre 2018 – Bellinzona – Teatro Sociale 
1,2,3 dicembre 2018 – Monza – Binario 7
Prossima puntata di Iperteatro 2018: Kepler 

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