02 novembre 2017

OUTSIDER

 
Prima puntata di una nuova rubrica dedicata agli artisti “non convenzionali”. Ecco il mondo del francese Philippe Azema
di Marcello Francolini

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Da “Magicienes de la Terre”, arrivata al Centre Pompidou nel 1989, ad oggi, l’attenzione verso l’arte degli “outsider” è stata a dir poco crescente. Se all’esposizione di Jean-Hubert Martin, ancora oggi tra le più citate come esempio di una indagine tra “arte ufficiale” e “scoperte” si erano però associate critiche rispetto alla metodologia di composizione della mostra, ovvero sul mostrare l’arte africana autoctona come un prodotto esotico, parallelamente alle produzioni di artisti che, invece, potevano essere considerati outsider nel loro continente d’origine perché legati alle leggi – specialmente di mercato – occidentali, viene da dire che – come storia ed economia insegnano – il “problema” è stato decisamente aggirato e, con cognizione di causa o meno, sono nate dozzine di iniziative, dalle mostre alle fiere, che hanno tentato di scavare e di restituire l’originalità perduta con il peccato dell’accademia prima, e del sistema poi, attraverso il lavoro dei “fuori registro”. Da oggi, mensilmente, vi proporremo anche la nostra scelta. Pillole, senza pretese di esaustività generale, provenienti dal mare magnum internazionale degli artisti “altri”. (MB)
Chi é:
Nato nel 1956, Philippe Azema è cresciuto nel sud della Francia tra Camargue, Herault e Tarn, dove attualmente vive. È stato alunno dell’Accademia di Belle Arti di Tolosa per un solo anno, visto che ben presto abbandona l’interesse per la pittura. Inizia a lavorare come agricoltore, e nel tempo libero riscopre l’impulso per le forme, tornando a dipingere, ma con un rasoio e con un bastone appuntito, con acrilico inchiostro e olio.
Sembra da subito spinto a mettere in scena le ansie e le paure dei deboli, dei poveri, attraverso la ripresa di storie popolari come “La bête du Gévaudan”, su cui inventa il suo bestiario immaginario. I suoi lavori si muovono sulle medesime tonalità del rosso, nero e giallo. Le figure che abitano le sue opere ricordano disegni preistorici, dove possiamo vedere uomini e animali su sfondi caldi. 
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Azema 4, Oritogène, 2016 125x125cm
Le opere:
Guardare al mondo di Philippe Azema, alla spontaneità delle forme, alla contorsione dei suoi colori, all’imprevedibilità dell’equilibrio compositivo significa, a prima vista, venir investiti dalla tracotanza dell’originalità. Un’originalità che è originale e originaria al tempo stesso. Alla vista la sua opera si mostra al di fuori di qualsiasi regola della rappresentazione comune, evidenziando qui la sua novità, il suo essere originale; tuttavia questo modo di rappresentare il mondo e le cose, trova una sua similarità con le forme primordiali, quelle dell’uomo della caverna: quelle originarie, appunto.
Per comprendere meglio perché la forza della morfologia delle sue opere risieda nel dualismo originale-originario, bisogna sapere che Azema non cerca l’originario in modo pre-determinato: in tal caso sarebbe come dire che ha una specifica conoscenza della storia dell’arte, e magari anche dei condizionamenti in fatto di gusti, e stili, come fossimo in presenza di un artista “consapevole”. Qui invece vi è un’anarchia compositiva, e siamo al cospetto di un artista “autodidatta”.  Philippe Azema è infatti un contadino. Un buon contadino. Nel tempo in cui non lavora la terra, lavora la tela. Ed è un artista in quanto l’arte è per lui fisiologica. Le sue opere non sono che la materializzazione dei progressivi tentativi di ricercare se stesso, e il mondo intorno. 
Potremmo dire che l’atteggiamento verso la creazione in questo caso è come un “lasciarsi”. La disposizione d’animo impedisce alla mano di rallentare su lungaggini prospettiche, nessuna resa artificiale della luce, tutto è dato dall’accoppiamento dei colori tra loro. Nel caso specifico di Azema, tre toni, giallo rosso e nero, guidano la costruzione architettonica dei suoi “mondi”, come in una daltonia mistica, che porta letteralmente “fuori” lo spettatore. Fuori della realtà si entra nello spazio dell’opera. Le forme sembrano impresse sul fondo, composto da diverse parti di carta, su cui l’artista ha inciso figure quasi incorporee, vere e proprie tracce in un antro del suo inconscio. Vero è che le figure che vi abitano sembrano convenire con le forme primordiali della caverna. In effetti, la pittura preistorica nacque proprio intorno al fuoco della caverna, giacché era quello il tempo del riposo, della possibilità di essere abbandonati a se stessi, senza il pensiero né d’esser cacciatore né tantomeno preda. Queste tele sono l’attimo lascivo in cui il corpo riposato si apre alle sollecitazioni del mondo, restituendole sotto forma di immagini frugali. La primordialità di questa prassi creativa è ciò con cui Philippe Azema riesce a trovare una dimensione dello spirito, in un percorso simile all’uso dell’arte come mezzo verso l’alterità, verso l’ulteriore, l’oltremodo, come fu agli esordi della storia.
Marcello Francolini 

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