06 maggio 2019

Contropelo

 
Il pugile e la paura
di Mariasole Garacci

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A Palazzo Massimo alle Terme a Roma c’è una superba opera d’arte che tutti conoscono. È il cosiddetto Pugile a riposo, una statua in bronzo attribuita a Lisippo o sua cerchia databile alla seconda metà del IV secolo a.C., che raffigura un muscoloso lottatore seduto, con le braccia appoggiate sulle gambe, stremato dopo un incontro nel quale ha dovuto battere e massacrare (forse uccidere) il suo avversario, un altro schiavo e povero disgraziato come lui. Indossa ancora i caestūs, guanti da combattimento degli antichi greci e romani, costituiti da fasce di cuoio e borchie metalliche avvolte attorno alle mani, il cui nome deriva dalla parola caedĕre: “abbattere, rompere, uccidere, massacrare, percuotere” (Luigi Castiglioni, Scevola Mariotti, Vocabolario della lingua latina, Loescher 1966). I suoi capelli e la sua barba sono curati: certamente anche guadagnarsi il favore del pubblico femminile fa parte del mestiere di sopravvivere; ma sul suo viso maturo e sul suo corpo, una macchina da combattimento, alcuni dettagli raccontano una lunga storia di sofferenze e resistenza al dolore: dalle ferite ancora aperte stillano gocce di sangue, il setto nasale è deformato dagli antichi colpi ricevuti, le orecchie tumefatte hanno da tempo assunto la forma detta “a cavolfiore”, come quelle dell’americano Randy Couture e del brasiliano Wanderlei Silva, moderni campioni di arti marziali miste e wrestling.
La statua fu scoperta nel marzo del 1885 a diversi metri di profondità nel terreno del Convento di San Silvestro al Quirinale, dove sorgevano le Terme di Costantino, tra due muri di fondazione di un antico edificio. Era stata sepolta lì secoli prima: non rovinata a caso dal suo posto o gettata lì, ma accuratamente posta a sedere su un capitello e ricoperta con uno strato di terriccio perché la superficie non fosse danneggiata dai secoli di sonno che la aspettavano. Qualcuno l’ha nascosta per proteggerla dalla distruzione ad opera di saccheggiatori o di iconoclasti cristiani, o dalla fusione del bronzo per farne armi, utensili, chissà cos’altro. Non sappiamo perché: amore per l’arte, o pietà per quel viso che interpella tutt’ora così prepotentemente chi lo incontra?
Nel 1993, lo scrittore americano Thom Jones pubblicò undici racconti ispirati a questa statua, in una raccolta intitolata The pugilist at rest, che parlava di marines, malati terminali, sbandati vari.
Questo lottatore, reduce da molti incontri, è l’immagine di un’esperienza che molti di noi fanno nella loro vita: conosce la paura. Paura del dolore, della sconfitta, della morte; paura che le cose non abbiano un senso; paura semplice e distillata, senza oggetto, che è poi quella paura dell’annientamento cui il fatto stesso di essere in vita ci rende soggetti. E dinanzi a questa paura è completamente solo. Non può neanche comunicarla, e comunque sa che non servirebbe. Lo sappiamo tutti, in fondo: nessuno può combattere la nostra paura o vivere al nostro posto.
Eppure, anche se la paura e la solitudine dinanzi ad essa potrebbero frantumare la sua unità esistenziale, lui resiste, tiene insieme le sue parti. Nulla gli garantisce che, a parte la sopravvivenza e la mancanza di alternative, ci sia una buona ragione per farlo. Però lo fa, e questo è il suo coraggio. Questa è la lotta.
Mariasole Garacci

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