08 maggio 2017

Viva la Rai

 
Intervista con Francesco Vezzoli, che guarda la produzione della TV “di Stato” alla Fondazione Prada. Dal 1971 fino alla nascita della terza rete, cavalcando un'epoca e un sogno

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Il titolo di questa intervista è quello di una vecchia canzone di Renato Zero, cantata come sigla di “Fantastico”, nel 1982. Non la troverete tra le presenze della mostra “TV 70. Francesco Vezzoli guarda la Rai” alla Fondazione Prada, nonostante l’esclamazione per l’artista resti più che valida. Il perché di questa scelta? Ce la racconta colui che nei suoi lavori ha coinvolto i volti del cinema mondiale così come le voci più popolari della musica italiana, che ora (da stasera al 24 settembre, con il supporto curatoriale di Cristiana Perrella e la consulenza scientifica di Massimo Bernardini e Marco Senaldi), mette le mani nel tubo catodico della produzione RAI durante il decennio più controverso del secondo Novecento: i Settanta.
Premessa: penso che una mostra del genere fosse necessaria per ridare voce e dignità a un periodo della televisione italiana che spesso abbiamo visto, negli anni recenti, fatto a pezzi dalla stessa RAI, messo in format riempitivi che hanno puntato tutto sul lato più nazional-popolare degli show di quegli anni, levando il coinvolgimento culturale che all’epoca era presente. Ma gli anni ’70 sono da tempo parecchio sdoganati, in molte forme. C’è stato un rischio che hai dovuto scongiurare? 
«Rischi sicuramente me ne sono presi; magari ci sono delle omissioni, ma hai cominciato l’intervista dicendomi la tua, ed è un ottimo inizio: è segno che, da qualche parte, ti ho toccato nel vivo. Quando si usano questi patrimoni si rischia molto perché non si tratta di semplici retrospettive. È una mostra che ho preso sul personale. Al cinema vi è la parte ragionata, più narrativa. Negli spazi espositivi sinestesie, coincidenze di senso, che non è detto appartengano alla personale hit parade dello spettatore. Ho messo Burri, Boetti, Guttuso, Vedova perché la RAI li aveva intervistati, ma anche Agnetti perché in camera mia c’erano suoi multipli su carta, dal valore zero. Qualcuno potrebbe avere mille obiezioni, ma io non mi pongo come curatore: mi è stata data la libertà di giocare con questo tesoro, e l’ho fatto a mio modo».
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Hai detto che questa mostra è stata concepita come un sogno: le tre sezioni sono venute in automatico?
«Diciamo di sì: nella parte dedicata agli anni di piombo l’arte non c’è perché ritengo di non aver la caratura etica per mettere a fuoco un percorso di questo tipo, ma c’è poi l’arte rapportata allo spettacolo e alla TV. E poi la sezione dedicata all’arte e ai diritti civili e al femminismo che si apre con Carla Accardi e Giosetta Fioroni. La mia tesi critica è che le donne, all’epoca, abbiano penetrato un’industria considerata leggera dagli intellettuali, che oggi però è l’ultima roccaforte del potere, e che ancora di più ha a che fare con la politica».
Arrivi cronologicamente al 1979, anno di nascita della terza rete RAI. Spesso però gli anni ’70 si fanno chiudere nei primi anni ’80, quando Licio Gelli sale al vertice della P2, gruppo che aveva al suo interno anche Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese e Claudio Villa: la televisione.
«Si, ma nell’82 c’era già Berlusconi, e nel bene e nel male tutto era cambiato. Gli show di Costanzo, prima, erano veri e propri scontri sociali. Dal ’79 si entra in un’altra fase, per quello non abbiamo incluso quel periodo. Se vogliono un’altra mostra sugli anni ’80, partendo da “Colpo grosso”, sono pronto, ma come studioso di TV c’era un passaggio che non si poteva mischiare».
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Torniamo alle donne: negli anni ’70 c’è anche l’incredibile presenza di B movies dove infermiere, insegnanti e liceali facevano la doccia guardate dal buco della serratura; c’è Loredana Berté nuda in copertina che però canta Meglio Libera; poi c’è Lisetta Carmi che fotografa i travestiti, Paola Mattioli e Anna Candiani con “Immagini del No” sul divorzio, Tomaso Binga che sceglie un nome d’arte maschile. L’universo rosa era ben conscio del proprio ruolo non solo politico, ma anche seduttivo
«Su questo sono stato messo in guardia: c’è chi sostiene che l’uso del corpo nello spettacolo dell’epoca non fosse completamente libero, ma strumentalizzato. È una versione che io contesto. Se davanti a milioni di spettatori, alle 9 di sera, canti Com’è bello far l’amore da Trieste in giù qualche schema lo rompi. Qualcosa che per qualcuno era dato per scontato, per altri fu molto liberatorio. E poi sì, c’era una forte consapevolezza del proprio ruolo, anche andando apparentemente contro il femminismo. “Milleluci” è il primo programma senza uomini, condotto da due donne forti e autonome [Mina e Carrà, n.d.r]: mai sposata una, l’altra cacciata dalla RAI e poi riammessa per aver concepito un figlio con un uomo ammogliato. Ti accoglievano in prima serata con la loro potenza, bellezza e ironia. Il regista Antonello Falqui in questo era bravissimo. Pensa anche a “Dove sta Zazà”, il programma condotto da Gabriella Ferri, altra donna per niente facile, messa a cantare come un clown sul ponte della Prenestina in costruzione. Ciao Michel Gondry!».
Hai dichiarato di essere cresciuto tra Canzonissima e Fassbinder: vuoi tenere il piede in due scarpe? 
«La mostra è giocata su due piani, va dal buio delle proiezioni alla luce delle opere. È una mostra dialettica perché viviamo in un’epoca post ideologica: mettiamo i travestiti e compare “Stryx”; dopo Elisabetta Catalano si spegne la luce e c’è Adriana Asti con Wanda Osiris. Sta allo spettatore decidere. La RAI è stato uno splendido Giano bifronte statale che alle 20 ti dava il telegiornale e il dolore, e mezz’ora dopo il modo di evadere».
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Mi pare avessi definito la RAI come la versione italiana dell’Archivio del Pompidou: un’istituzione che ha contribuito a formare il Paese. Cosa pensa Vezzoli della televisione di oggi? 
«La televisione di oggi non è più generalista nemmeno quando lo vuole. La TV degli anni ’70 era una messa cantata in Duomo, non si scappava. Non c’era il videoregistratore: era un appuntamento a cui ti presentavi o mancavi. Un rito. E i riti producono i miti. Oggi i miti non si creano perché non c’è un terreno comune».
Che cosa guardi?
«Tutto. Se c’è Montalbano o il “Medico in famiglia” spengo il telefono, ma sono anche pazzo di “Non uccidere”. Amo la fiction perché penso sia una sostituzione di affettività, ti fa compagnia. Pensa alle soap opera!».
“Blob”, a mio avviso, è il programma più dirompente mai trasmesso da qualsiasi televisione. Ci racconti del tuo, al cinema della Fondazione, e con quale spirito è stato montato?
«”Blob”, per me, è un’opera d’arte. E aggiungo: solo noi lo abbiamo. Pensa fare “Blob” negli Stati Uniti: dopo 5 minuti ci sarebbe la guerra tra gli avvocati della CBS, della Paramount, della BBC: impossibile. Io ho cercato di emulare questa creatura meravigliosa e anarchica, presentando anche le eccellenze della RAI, perché la TV pubblica stipendiava alcuni dei più gradi creativi e intellettuali che abbiamo avuto. Gli USA avevano come icona Joy Mangano [la donna che inventò il “mocio miracoloso” e da cui David Russell ha tratto il film Joy, n.d.r.], ad est il blocco ideologico: noi avevamo “Stryx” e Chung Kuo. Cina di Michelangelo Antonioni ed Umberto Eco che intervistava, con un po’ di timore, Paolo Poli. Ti pare poco? Eravamo fighissimi».
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A proposito di fighi: Vezzoli fa la mostra da Prada e il successo è garantito, ma ho anche un’altra percezione: pensi che il pubblico senta inconsciamente il bisogno di riscoprire le proprie “origini” televisive? 
«Sì, certo. Ed è una voglia ideologicamente legittima. A posteriori dobbiamo ammettere che Tanti Auguri era un grido liberatorio e civile. Oggi abbiamo uno che è arrivato a fare il Presidente degli Stati Uniti esclamando Grab her by the pussy. L’avesse detto alla Carrà, all’epoca, l’avrebbe preso a calci con le zeppe!».
Chiudo con il gioco della Torre, come in un talk show: Mina o Raffaella Carrà? 
«Butto Mina, perché in tutte le interviste non parla mai di quel periodo. Userò qualsiasi mezzo per intervistarla e costringerla a dire che erano anni meravigliosi, che lei era innamorata di Falqui e che insieme hanno fatto i momenti più belli della nostra televisione. Voglio che lo dica: erano felici e davano sollievo a una nazione che altrimenti sarebbe morta di dolore».
Matteo Bergamini

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