29 giugno 2018

Il tempo dell’arte

 
Pensieri a margine intorno ad alcune esperienze siciliane, dove il contesto sembra aver fatto la differenza, ma solo agli occhi degli addetti ai lavori

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Che significato ha, per una comunità, trovarsi faccia a faccia con un branco di artisti bizzarri che per una mezza giornata invadono una villetta confiscata alla mafia, in uno dei paesi più singolari di tutta la Sicilia, dal quale provenivano Riina e Provenzano, giusto per citarne un paio?
Quali fratture provoca l’arte, quali movimenti? Ma soprattutto, provoca qualcosa? A cosa serve, e come può essere utile? 
Nei giorni scorsi a Palermo si sono intrecciate una miriade di storie, e ovviamente si è parlato anche di malavita e malaffare “legalizzato” (diciamo pure “statale”) o in ombra, colluso, vecchio e nuovo. Basti pensare ai progetti che gettano una luce sulla “politica” delle basi militari statunitensi nell’isola (a Palazzo Forcella), al decennale lavoro degli Alterazioni Video, al progetto di Eva Frapiccini nato coinvolgendo le famiglie di illustri vittime di mafia e le scuole, e al bell’evento – completamente slegato a Manifesta – RAID, messo in piedi dai bolognesi FatStudio – che nella ex proprietà della famiglia Lo Bue (imparentata con la dinastia Provenzano) a Corleone – ecco il celebre paese – ha portato per un pomeriggio pratiche performative, musica, azioni e incontri-racconti anche in questo caso di famigliari di vittime di Cosa Nostra, tra stanze spoglie e permeate di un’energia decisamente oscura. 
RAID ha squarciato un velo, lo ha visto chi era presente, rispetto a una realtà complessa che, purtroppo, ancora sembra osservare dalle finestre e a voltarsi dall’altra parte. Servirà tanto tempo, ci ha detto sul posto Rosanna Mallemi, una delle tre commissarie per Corleone, il cui municipio è stato sciolto più volte per infiltrazioni mafiose, l’ultima nel 2017.
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Francesca Pasquali, RAID Corleone

Servirà molto tempo, aggiungiamo noi, anche perché al RAID a casa Lo Bue, durante le sei ore di azione, praticamente nessun cittadino si è presentato, se escludiamo un paio di vigili e un po’ di polizia. 
Qui, in questo piccolo paesino disteso in una splendida vallata a 60 chilometri da Palermo, l’attività lavorativa predominante è legata all’agricoltura, e i giovani che scelgono di non scappare collaborano con il CIDMA – Centro Italiano Documentazione Mafie e Antimafie. 
Si tratta di un palazzo che conserva – tra decine di belle stampe di Letizia Battaglia – anche un grande archivio con le confessioni del boss Tommaso Buscetta e del “Papa” della malavita, il faccendiere Michele Greco che, tra le altre peculiarità, era solito girare con una Bibbia sotto braccio e ordinare messe per chi era stato condannato a morire dalla mafia la notte prima del giorno designato.
Pare di sentire ancora gli echi di quell’aspetto religioso e superstizioso che è andato in tandem con gli affari delittuosi della malavita, ma il ricambio delle generazioni e la voglia di riscatto è fortissimo, tanto che anche nei cartelli di ingresso al paese si associa un “Corleone paese della legalità”. Si spera, insomma. 
E allora, ancora, cosa può fare l’arte in un contesto del genere? Come può situarsi nel “sociale” e dare un contributo critico e umano, senza diventare una farsa travestita da festa di liberazione, o di “Evviva la fratellanza, abbasso le mafie”?
Ovviamente non ci sono ricette precise e forse, per i detrattori delle “Estetiche Relazionali”, non dovrebbe essere affare dell’arte ricompattare e guidare comunità. Forse. Ma visto che il tema del “Giardino Planetario” ha scelto di mettere le mani in pasta all’argomento, sarebbe utile una volta tanto sporcarsi, e non indugiare nel marcio solo con un approccio teorico per restare con le mani pulite, appunto.
Manifesta ha avuto il pregio di riuscire, grazie alle mille mani e sovvenzioni che hanno permesso la realizzazione della kermesse, ad aprire meravigliosi palazzi chiusi da decine d’anni, ha avuto l’intuizione di legarsi a luoghi simbolici come Piazza Magione, di portare l’arte negli Archivi Storici – con le loro impressionanti raccolte – e di ripristinare edicole. Manifesta, ma questo lo vedremo solo in futuro, è riuscita forse a gettare una luce nel buio di uffici comunali polverosi, di innescare una buona bomba che a Palermo – ricordano i cittadini più adulti – era arrivata anche dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, quando la città scelse di ribellarsi dal basso alla strategia del terrore e al tritolo. 
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Giulio Cassanelli, RAID Corleone

Sì, direte voi, ma l’arte che c’entra? L’arte – e credo che Palermo sia stata dimostrazione evidente di questo potere – può realizzare utopie. Formare coscienze. Per lo meno quando decide di lavorare direttamente in un territorio e non scegliendo l’evento. L’arte può essere utile se, anziché offrire un pesce alla comunità – come dice il proverbio cinese – si facesse tramite per insegnare a pescare ai cittadini. L’arte serve quando un “temporary space” apre una frattura indelebile. Quando una residenza sul territorio permette di apportare un arricchimento anche a chi la permette (i cittadini) e non solo a chi la vive (l’artista). E allora, ancora una volta, serve tempo. Tanto tempo. 
L’arte servirà quando smetterà di depredare tradizioni per realizzarne bei quadretti che vogliono “denunciare” i problemi. L’arte servirà quando in questo giardino planetario ci pungeremo con le ortiche e impareremo a non confondere più il “paesaggio” con la morfologia, o a pensare che il mondo “naturale” sia composto solo di prati all’inglese ignorando l’idea della giungla (che francamente farebbe ben a meno di noi). L’arte serve quando “coltivare la differenza” porta un arricchimento a entrambe le parti. Altrimenti si fa il gioco buono dello spettacolo, e poco altro. Si fanno cantare i neri in piazza e poi li si continua a tenere confinati ai margini della città. E una volta spenti i riflettori, tornati a casa gli attori, dimenticata la parte, sul palcoscenico torna l’indifferenza.
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Paolo Grassino, RAID Corleone

Manifesta, come ogni manifestazione del genere – dalle Biennali alle fiere (le differenze in questo caso ci interessano poco) – è un carrozzone che deve tenere conto di sponsor ed equilibri, è una mediazione di denaro e personale, è una kermesse non slegata da nessuna economia, ed è quantomeno ingenuo chi lamenta il fatto che a Palermo la biennale itinerante avrebbe dovuto essere più politica, dura, “libera”. Sarebbe come chiedere a un’azienda di inceppare le proprie macchine per produrre oggetti estetici
La grande scommessa di Manifesta (ma ancora non lo sappiamo, perché solo parzialmente dipenderà da lei) è far arrivare agli occhi di Palermo e di chiunque abbia partecipato al progetto, la consapevolezza di avere un tesoro enorme da conservare e da cambiare, cambiamento che non esclude ovviamente la vita di ognuno. 
È quello che dovrebbe fare l’arte, ma anche ad essa serve il tempo di innestarsi in un luogo, di lavorarvi, di capire il “pubblico” e di ottenere la fiducia che porta al dialogo.
Può raccontarlo un video, o un RAID in un paese-simbolo del sopruso e della prepotenza. L’importante è avere almeno una mezza idea di dove guardare. Manifesta può essere un buon punto di vista da dove iniziare.

Matteo Bergamini

In alto, Alessandro Brighetti per RAID, Corleone

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