09 febbraio 2019

L’intervista/ Moreno Gentili

 
L’UNITÀ NEL MOLTEPLICE CONTEMPORANEO
Incontro con l’istrionico scrittore e artista, creatore dei “Manifesti Poetici”. In mostra a Milano

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Artista poliedrico, scrittore, poeta, fotografo fino al 2007 e quindi curatore di festival culturali, concept designer di una cultura d’impresa illuminata, interior designer di musei industriali e quindi, eclettico per antonomasia. Intervista con Moreno Gentili, in occasione della mostra dedicata ai suoi “Manifesti Poetici”, al Caffè Cucchi di Milano.
Secondo la sua esperienza, oggi l’eclettismo creativo in Italia è una qualità o un problema?  
«L’eclettismo è sempre guardato con sospetto, inutile nasconderlo. La storia recente di Milano rivela però come l’eclettismo sia una preziosa risorsa per l’arte. Dino Buzzati, scrittore, pittore e disegnatore, Emilio Tadini, pittore e scrittore, Carla Cerati, fotografa e scrittrice, Lalla Romano, scrittrice, pittrice e fotografa,  Ettore Sottsass, designer e fotografo, Corrado Levi, architetto e artista, senza poi dimenticare altri autori italiani quali Carlo Mollino, architetto, designer, fotografo e, soprattutto, Pier Paolo Pasolini, mentore nel senso innovativo del termine fino agli attuali più capaci come Elisabetta Sgarbi, regista, direttore editoriale e curatrice di progetti culturali, Gianluigi Colin, artista, giornalista e art director di testate prestigiose, Elio Carmi, designer, curatore della sinagoga di Casale Monferrato e saggista. La qualità dell’eclettismo non è il problema, semmai è una questione di sistema. Molti critici percepiscono l’eclettismo come minore rispetto ai generi creativi specifici, mentre il mercato dell’arte non ne percepisce l’autorevolezza».
Nel 1986 lei vince giovanissimo il premio nazionale di Fotogiornalismo “Vincenzo Carrese” di Publifoto con un’inchiesta su Solidarnosc, nel 1988 pubblica il suo primo libro fotografico “Milano Metropoli”, nel 1991 vince il premio “Franco Pinna” promosso dalla Cgil nazionale con un’inchiesta su Porto Marghera e nel 2002 ottiene il premio Europeo “Mosaique” indetto dalla Comunità europea con un progetto sulle trasformazioni del lavoro dell’uomo agli albori del terzo millennio. Quanto ha inciso la scrittura nella sua ricerca artistica e perché?
«Le parole per me sono sempre state importanti. È nella buona informazione che ripongo fiducia e credo che oggi, giornali come “Buone notizie” – allegato al Corriere della Sera (ndr)- rappresentino quella attenzione agli altri in cui ho sempre creduto».
Quando ha smesso di fotografare mutazioni urbane e cambiamento sociale e per quale motivo?
«La scrittura ha preso il sopravvento dopo una esposizione al MAXXI di Roma cui è seguito il progetto “Do Not Cross” a difesa delle foreste europee dove le parole hanno avuto un certo peso. È importante però precisare che non ho smesso di “parlare” di temi etici. Ho cambiato il mezzo, non il contenuto».
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Close up del manifesto Ti amo, versione per Lei
Perché nel 2000, all’alba di un nuovo millennio carico di incognite, ha riesumato il Manifesto, uno strumento di comunicazione introdotto dalle avanguardie artistiche del primo Novecento?
«I miei primi manifesti sono stati No, Ti amo e Piantala. Mi era sembrato un bel modo per dire con la scrittura qualcosa di personale e anche politico. Quei manifesti, così come quelli di oggi, rappresentano emozioni basiche tanto che il migliore apprezzamento l’ho ricevuto da una madre. “Ogni giorno io e mio figlio ci alziamo e scegliamo un Piantala”. É questa l’arte che mi interessa».
È in corso la mostra dei suoi “Manifesti poetici” (fino al 28 febbraio, che si concluderà con una serata dedicata alla Fondazione Veronesi e al progetto “Gold for Kids” dedicato all’oncologia pediatrica) presso il caffè fondato da Cesare Cucchi nel 1936 a Milano, ritrovo storico del quartiere di Porta Genova e fucina di pensieri: perché ha scelto un caffè per mostrare i suoi Manifesti?
«Il caffè Cucchi sta al caffè San Marco di Trieste così come alle Giubbe rosse di Firenze e pertanto nobilita la città. Se a questo aggiungiamo che a Milano Pietro e Alessandro Verri diedero vita a Il Caffè, periodico che tra il 1764 e il 1766 sostenne le tesi Illuministe, ecco spiegata la scelta verso una cultura civile in cui credo e che porto negli eventi di cultura come “Letteralmente festival” a Milano o “Manifestare poesia” a Recanati».
Per questa mostra ha composto un nuovo Manifesto dedicato a Milano, la città italiana più internazionale. Secondo lei quali sono i difetti e i pregi di questa visibilità?
«Il “Modello Milano” voluto dall’attuale giunta funziona, purché si rispetti la storicità civile e ambrosiana della città. Oggi la crisi economica ci rivela che la forza di una comunità non passa dall’appeal internazionale, ma da una sensibilità diffusa verso gli altri. Non solo efficienza, ma efficacia solidale, please».
Lavora con qualche gallerista? I suoi Manifesti poetici chi li compra?
«Non ho gallerie, ma non per snobismo bensì perché mi piacciono gli incontri seri. Qualche anno indietro, Robin Rice, una gallerista di New York, aveva visto delle mie fotografie di Venezia ed era venuta a conoscermi. A proposito, una domanda a Lei che è del mestiere: ci sono ancora galleristi così? I manifesti piacciono a persone diverse e penso sia giusto che ognuno se li possa permettere come può. In questi giorni ho saputo che un marito innamorato ha riprodotto un manifesto per regalarlo alla moglie. Non è fantastico? La cosa altrettanto bella è che me lo ha confidato la moglie che ne ha acquistato uno per lui. Chissà quale sarà per loro il più sentito…».
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Manifesti Poetici al Caffè Cucchi di Milano
Secondo lei si può ancora parlare di arte politica come espressione critica alla società?
«L’arte, per come la intendo personalmente, è politica. Senza capolavori come L’urlo di Munch, Guernica di Picasso, la pittura di Grosz, una certa difesa della natura di Cézanne, il lavoro di Beuys, la ribellione di Gina Pane, Balkan Baroque di Marina Abramović, il pensiero di Ai Weiwei e altri autori di altri generi creativi, beninteso, la storia dei linguaggi artistici sarebbe noiosa».
Qual è il ruolo dell’arte nell’epoca dei twitter e dei like? 
«Quello di sempre: essere presente nel cuore e nella mente delle persone indipendentemente dagli strumenti di comunicazione».
Qual è la differenza tra un’opera e un progetto?
«L’opera è sintesi, spesso il conguaglio ideale tra anni di studio e un colpo di fortuna. Personalmente ho cara la mia immagine dell’ombra delle Twin Towers che si staglia su New York. Sintesi e fortuna, appunto. Il progetto è invece un percorso di ricerca e maturazione dell’artista, così come lo è per un monaco o mistico che sia. É il tempo a decidere in termini di profondità la qualità della ricerca».
Oggi per lei la critica è morta o è “puttana”, se non cassa di risonanza del mercato dell’arte?
«Conosco molti critici bravi che seguono con scrupolo gli artisti senza sacrificarli né al mercato, né al loro personale successo, ma semmai condividendolo. In ogni caso a una Critica “puttana” preferisco una puttana critica, detto senza offesa per chi fa questo mestiere gestito per lo più dalla malavita».
Se i suoi figli un domani volessero intraprendere la carriera artistica, lei cosa gli consiglierebbe? 
«Sono liberi per me, ma non per il sistema. Questo è un vantaggio e uno svantaggio insieme, ma se vorranno condividere le loro personali esperienze, sarò con loro».
Jacqueline Ceresoli

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