27 marzo 2019

L’intervista/Milovan Farronato

 
NÉ ALTRA NÉ QUESTA DIREZIONE
Parla il curatore del Padiglione italiano alla Biennale 2019, presentato stamattina al Mibac

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Presentato stamattina al Mibact il padiglione Italia 2019 della Biennale di Venezia, dal Ministro Bonisoli e da Milovan Farronato. Un padiglione “circolare”, senza inizio né fine quello pensato dal critico e curatore che – dopo essere stato nel board di Viafarini, co-curatore alla Galleria Civica di Modena con Angela Vettese – è attualmente impegnato con Fiorucci Art Trust. Ecco la prima intervista post-conferenza, che racconta di come sarà strutturata la mostra. 
Da che cosa nasce il tuo progetto?

«Il progetto nasce da vari fattori, alcuni occasionali altri intenzionali. In principio c’è stato anche un brainstorming con Stella Bottai e Nicoletta Fiorucci. Quando ho ricevuto la lettera che mi chiedeva di presentare un progetto ho subito pensato di fare un briefing, e così ci siamo seduti intorno a un tavolo con Stella, che dal 2014 al 2015 è stata la mia junior curator al Fiorucci Art Trust e Nicoletta, fondatrice del trust che dirigo dal 2010. Nel corso di questo incontro, si aggiravano nei dintorni dello stesso tavolo anche altre persone, tra cui Marina La Verghetta, assistant curator del Trust, Spyridoula Joumaki, curatorial assistant e Matilde Cerruti Quara che lavorava con noi allora. Le mie prime intuizioni sono state suggestioni spaziali, ho pensato ad alcune soluzioni espositive dell’artista tedesca Katharina Fritsch, al suo progetto per il padiglione Tedesco alla Biennale di Venezia del 1995 o alla sua più recente mostra Zita allo Schaulager. Ho pensato anche a Camille Henrot e all’edizione 2016 di Volcano Extravaganza curata insieme che si intitolava I will go where I don’t belong e in particolare alle possibilità di costruire, o ricostruire dopo un naufragio o una migrazione, un microcosmo essenziale, dove le gerarchie non hanno più importanza ma ogni presenza, ogni lascito, ogni detrito diventa l’immagine di un proprio desiderio. Mi interessava il concetto di maison absolue dove tutto torna nuovamente utile, prezioso, indispensabile e dove il minimo diventa il massimo nella costruzione di un universo ridotto. Una casa labirinto, uno spazio dinamico e aperto a diverse interpretazioni, con vari percorsi possibili e la possibilità per ognuno di intraprendere la propria strada, la propria scelta. Stella mi rammentò del saggio pubblicato nel 1962 da Italo Calvino, La sfida al labirinto, che utilizzava la metafora del labirinto per raccontare come la letteratura, con le sue complessità e le sue tendenze divergenti, poteva raccontare il mondo contemporaneo nell’era della nascente cultura industriale. Questa è un po’ la cronistoria del progetto. Successivamente, insieme a Calvino, che durante i miei studi universitari mi aveva profondamente ispirato e affascinato, con i suoi ingegnosi meccanismi narrativi in opere quali Il castello dei destini incrociati o il metaromanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, sono arrivati molti altri riferimenti. Dalla lettura della carta dei tarocchi dell’Appeso, ai sigilli magici; e poi lo stile elusivo dell’ermetismo e i concetti di unità e molteplicità dell’insiemistica».

Liliana Moro

E il titolo del tuo progetto?

«Né altra Né questa, che ho preferito lasciare al femminile, l’ho scelto perché è un’anastrofe che invertendo l’ordine delle parole presuppone un errore che dovrebbe generare un effetto poetico. Mi è sembrato il titolo giusto anche perché indica una direzione, e questo è pertinente con l’idea del labirinto come percorso da attraversare, e perché lascia ipotizzare l’esistenza di una terza via, che potrebbe essere proprio quella che connette e legittima le altre due».

Perché Moro, David e Fumai?

«Perché a un certo punto il puzzle era completo solamente attraverso di loro. Nelle settimane precedenti alla presentazione del progetto, dopo varie notti insonni passate a cercare gli “elementi” giusti per sviluppare il lavoro che stava prendendo forma nella mia mente, l’enigma si ricomponeva perfettamente con queste tre necessarie presenze. Tutte parti imprescindibili del discorso che volevo portare avanti».

Come utilizzi gli spazi?

«Sarà un unico spazio, perché le due tese verranno unificate all’interno dello spazio ricostruito del labirinto. Non dovrebbe più esserci la percezione di passare da una sala all’altra. Un muro diagonale con due ingressi ben evidenziati attende il visitatore e quella sarà la prima scelta da compiere. Andare a destra o a sinistra? L’importante è non fare la fine dell’asino di Buridano. Certo è contemplata anche l’opzione di tornare indietro. Ogni scelta è giusta, non ne esiste nessuna sbagliata. Il labirinto e fatto di decisioni e di rinunce, ma non ne impone nessuna. Come diceva Italo Calvino il problema non è la risoluzione, ma piuttosto come vivere l’esperienza, come assumere un ruolo attivo all’interno del labirinto dell’esistenza».

Quali sono le difficoltà e le capacità dell’arte italiana, secondo te? E sei d’accordo con l’idea che vuole gli artisti italiani in difficoltà rispetto al mercato e alle grandi manifestazioni internazionali perché non sanno promuovere il proprio genius loci e che, a costo di tentare di entrare nel “sistema” rinunciano alle loro peculiarità per omologarsi a trend “stilistici” che però non riescono a sostenere?

«Credo che tutto sommato l’arte italiana goda di buona salute. In una recente intervista, mi era stato chiesto di definire la creatività italiana e io avevo usato la parola esplosiva pensando anche al vulcano di Stromboli, sotto il quale da più di un decennio organizzo ogni anno il festival Volcano Extravaganza, per i “caratteri” del Fiorucci Art Trust. Esplosiva perché credo ci siano diversi artisti italiani, più e meno giovani, carichi e pronti ad esprimere una loro visione solida e innovativa. Per esempio, il rigoroso Patrizio Di Massimo, l’esuberante SAGG Napoli, l’acrobatico Daniele Milvo, il torvo Gian Giacomo Rosetti, e Anna Franceschini, Riccardo Paratore, Benni Bosetto, Beatrice Marchi. In questi mesi, per raccontare il mio padiglione e in particolare il lavoro di Enrico David, ho anche spesso parlato di un concetto di italianità dinamico, che seppur radicato nella tradizione territoriale, è aperto e disponibile ad arricchirsi di nuovi stimoli. Una particolarità della situazione dell’arte contemporanea in Italia è il proliferare, negli ultimi decenni, di fondazioni private promosse da collezionisti illuminati e visionari, che ridanno linfa ad una antica tradizione di mecenatismo. Oltre a sostenere gli artisti e offrire programmi culturali validi e accessibili, grazie ad una fitta rete di collaborazioni internazionali queste organizzazioni spesso promuovono la cultura italiana anche oltre i confini nazionali. Per quanto riguarda il sostegno all’arte contemporanea da parte del settore pubblico, voglio ricordare quanto va facendo il MiBAC attraverso la DGAAP (Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane) per sostenere la mobilità degli artisti italiani e la disseminazione all’estero delle loro creazioni».

Chiara Fumai

Hai portato tu gli sponsor sul tavolo del Mibact?

«Il Ministero per i beni e le attività culturali ha messo a disposizione del progetto una somma significativa, che ammonta complessivamente a 600mila euro, di cui 200mila dedicati al mantenimento e il resto alla produzione, che ho ampliamente raddoppiato grazie al coinvolgimento di sponsor e mecenati che hanno creduto nel nostro progetto e a cui sono immensamente grato. Tra questi i nostri main sponsor Gucci e FPT Industrial, il nostro main donor Nicoletta Fiorucci Russo, con cui negli ultimi dieci anni ho costruito un rapporto di ammirazione e stima reciproca, e gli altri amici che hanno reso possibile il progetto, tra cui Roberto Spada, Beatrice Bulgari, Mario Nuciforo, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, Andrea Zegna, Martin Hatebur e Peter Handschin, Luigi Maramotti. E anche Giuseppe Iannaccone, Emmy e Danny Lipschutz Tawil, Frances Raynolds, Muriel e Freddy Salem, Gino Viliani e sua famiglia, Dirk e Rika Hamann, Fabio Cherstich, Nadia e Rajeeb Samdani, Antonio e Carla Sersale. Fondamentale anche la collaborazione tecnica di Irene Gemmo della Gemmo spa, di Emanuele Castellini di C & C Milano e Select Aperitivo».

Cosa pensi abbia colpito del tuo progetto rispetto a quelli dei tuoi colleghi?

«Questo non lo so. Di certo sono tutti colleghi di altissimo livello con importanti incarichi nazionali ed internazionali, tra questi Andrea Bellini, con cui sto lavorando alla retrospettiva di Chiara Fumai. Perché sono stato scelto io dovreste rivolgere la domanda al commissario del Padiglione Italia, l’architetto Federica Galloni, Direttore del DGAAP, che ringrazio per la fiducia e per il supporto continuo, e ringrazio anche Carolina Italiano, responsabile progetti speciali per l’arte contemporanea, per l’aiuto costante e cruciale».

Enrico David

Al momento della tua nomina tra le varie opinioni che circolavano c’era anche quella che indicava la tua scelta per il tuo “genere non conforme”: una risposta del Ministero al clima politico claustrofobico che si respira attualmente nel Paese. Che cosa risponderesti?

«Ricordo una veloce ma accesa polemica iniziale a cui ho evitato di prendere parte. Ma non la ricordo a favore, anzi al contrario. Una zelante assessore alle pari opportunità, e a un altro dicastero che ora non rammento, infuriava sconcertata sulla sua pagina di Facebook, che avrei dovuto al massimo curare il carnevale di Venezia. Non sono intervenuto perché il commento mi sembrava totalmente fuori luogo e perché molti hanno preso le mie difese. Avrei potuto illuminarla su tanti significati simbolici e folkloristici legati al carnevale, sull’inversione del mondo e dei ruoli. La condizione esistenziale dell’Appeso. La ritualità di molti marines che attraversando l’equatore decidono di travestirsi per celebrare il passaggio nell’altro emisfero, sperando di confermare la loro sessualità una volta ribaltata la prospettiva. Nelle mie valli protagonista del carnevale era il ‘brusa la vecia’, cioè brucia il fantoccio che ha le sembianze di una vecchia megera e che simboleggia le sfortune che vengono eliminate con il fuoco. L’ho sempre trovato crudele, forse per questo ho maturato un’altra idea e immagine della befana e delle streghe. Avrei molte cose da dire sul carnevale e mi piacerebbe curarlo, ma quello di Rio magari, a Venezia preferisco curare il Padiglione Italia. Sono stato definito genere non conforme e mi sta bene solo perché è migliore rispetto ad altre definizioni. C’è molta confusione e molta voglia di definire!».

Chi ti ha sostenuto di più durante questi mesi?

«Il mio team in prevalenza al femminile – e tutte madri di bambini piccoli! – mi ha affiancato, supportato (e sopportato!), ho collaborato intensamente e quotidianamente con Stella Bottai e Lavinia Filippi, valide interlocutrici e interpreti del mio modo non lineare di pensare e di agire, Giorgia Gallina, nostro avamposto a Venezia, e Valerio De Lucente che ha progettato e seguito l’istallazione del padiglione che come puoi immaginare è stata complessa. Anche il team de La Biennale è stato estremamente presente e collaborativo, mi sono sentito appoggiato in questi lunghi ma velocissimi mesi: in particolare dall’avvocato Debora Rossi per i suoi risolutivi interventi, Paola Pavan per la pronta disponibilità e precisione, Cristiana Costanzo per i professionali e amicali consigli. Infine, ho sentito profondamente vicini alcuni amici, in particolare il mio “comitato scientifico informale”, configurato per genesi spontanea ancora prima della mia nomina e di cui sono membri onorari Francesca Del Sorbo (aka The Neurologist), Patrizio Di Massimo, Daniele Milvio, Antonio Fiorentino, Giulio Ceruti, Matilde Cerruti Quara e Luca De Leva, che da sempre mi hanno ascoltato e incoraggiato».

Matteo Bergamini

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