27 maggio 2019

L’INTERVISTA/ FRANCO FONTANA

 
LA SPONTANEA VOGLIA DI FOTOGRAFARE
Incontro con il Maestro dello scatto nella sua Modena, che lo festeggia con “Sintesi”

di

Franco Fontana a Modena è di casa. Qui c’è nato, 86 anni fa e qui riceve oggi un’importante celebrazione quale maestro indiscusso della fotografia italiana con una grande retrospettiva a cura di Diana Baldon e dello stesso Fontana dal titolo “Sintesi”. Suddivisa su tre delle sedi della Fondazione Modena Arti Visive – Palazzo Santa Margherita, la Palazzina dei Giardini e il MATA-Ex Manifattura Tabacchi – “Sintesi” riassume i momenti principali della sua lunga carriera: sessant’anni di ricerca raccontati attraverso una selezione di trenta opere scelte dagli archivi dello stesso artista, molte delle quali ad oggi inedite. Chi conosce il suo lavoro sa bene come egli si è sempre mosso sul filo di una fotografia che ibrida documentazione e pittura, in cui reale e suggestivo si mescolano in un’immagine che attesta ciò che è accaduto senza rinunciare al sentire emotivo e percettivo di quella sua precisa visione. Se Robert Frank negli anni Sessanta detta le regole di una fotografia descrittiva e fondata sul bianco e nero, negli stessi anni Fontana propone documentazioni che si allontano dalle norme fissate dal collega svizzero e si costruiscono attraverso impressioni, atmosfere, seduzioni visive, e soprattutto attraverso i colori. In un’epoca dominata dal bianco e nero, Franco Fontana si distingue e utilizza la pellicola Kodachrome. Il risultato sono immagini in cui ci immerge in un codice di colori e di forme, di punti di vista ribaltati, di particolari che diventano dei riferimenti. Quella che prima era una strada, per mezzo del suo obiettivo si trasforma in un oggetto astratto, scomposta in molteplici piani di visione che convergono l’uno nell’altro senza prospettiva, con un lieve senso di vertigine. Al centro delle riflessioni del fotografo modenese c’è il viaggio, ci sono paesaggi urbani e rurali in cui la figura umana è pressoché assente ma pur sempre protagonista nella scelta di confrontarsi sempre sulle tracce della sua azione sul territorio: una via asfaltata, un campo di grano in Puglia, un segnale stradale, delle ombre che si stagliano su strisce pedonali, due sedie abbandonate su una terrazza di un grattacielo di New York. Nel 1961 la sua prima foto, Riccione, si innesta secondo una precisa partitura di linee verticali, la stessa che cinquant’anni più tardi si ritrova in Havana (2007), due immagini che oggi segnano il limite fisico della retrospettiva di Palazzo Margherita. La mostra di Modena è l’occasione per rivolgere alcune domane al grande fotografo, partendo da una prima suggestione legata al valore del tempo e dello spazio nella sua arte che ci suggerisce proprio quel titolo, “Sintesi”, che riecheggia violento come uno statement. 
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Franco Fontana, Havana, 2007
Che significato assume per lei la parola sintesi?
«Sintesi: è praticamente il significato dei contenuti che ho espresso testimoniando il mio cancellare per eleggere, togliendo il superfluo esprimendone i contenuti che significano “sintesi”».
Se tornassimo indietro, a quel primo scatto del 1961 in Romagna, si ricorda com’è nata la sua voglia di fotografare il mondo?
«Spontanea, come l’acqua di sorgente».
E invece il rapporto con la sua città, che oggi la celebra e dalla quale si è più volte allontanato? 
«Ci sono nato e a Modena ci sono le mie radici: ho sempre viaggiato con l’elastico per ritornare alle origini dell’adolescenza». 
Usando la categoria delle scuole, da storico dell’arte mi chiedo se esista uno specifico “emiliano” per la fotografia. Forse la pianura, quegli orizzonti aperti, i suoi colori. Non so. Secondo lei cosa ha reso questa regione un terreno così fertile per la nascita di così tanti e importanti talenti?  
«Io lo chiamerei uno “specifico” italiano. È sempre fecondo in un terreno fertile il capitale artistico dell’Italia».
Le sue immagini si raccontano in mostra attraverso un gioco di continui riferimenti interni, che fondono passato e presente in una visione unitaria, in una sintesi appunto. Quali sono le costanti che segnano la sua ricerca e la composizione delle sue immagini? 
«La mia è una fotografia creativa ed è totalmente libera dalla dipendenza di quello che vede, creativa come lo sono la poesia e la musica che non illustrano nulla ma solo cuore e pensiero, dove tutto e per tutto diventa esistenza che rappresenta a 360° quello che immagini».
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Franco Fontana, Riccione 1961 courtesy Fondazione Modena Arti Visive
Il colore ha rivestito un’importanza rilevante nella sua opera, rendendo il suo stile estremamente riconoscibile. Perché il colore?
«Perché il colore? La creatività con l’aiuto del colore anche in fotografia non è sinonimo di creazione arbitraria ma un movimento che genera vita e non sofferenza con valenza positiva per tutti. Il colore è anche una sensazione psicologica, interpretazione psicologica emozionale. Come diceva Paul Klee, “Il colore è il luogo dove l’universo, il cuore e il pensiero si incontrano».
Paesaggio urbano e naturale: quali differenze nel suo racconto? 
«Non ci sono differenze: lo stile quando si certifica diventa “arte”. La forma è la chiave dell’esistenza e io cerco di esprimerla in fotografia testimoniandola nello spazio».
Ritroviamo in mostra molte delle sue immagini storiche presentate in un nuovo formato. Questa grande dimensione, che oggi trovo sempre più utilizzata, possiamo leggerla come un valore aggiunto?
«Perché no!!»
Se a Palazzo Santa Margherita e alla Palazzina dei Giardini si espone la sua opera, al MATA – Ex Manifattura Tabacchi ha curato personalmente una selezione dell’importante nucleo di fotografie da lei donate al Comune di Modena. Una collezione che è anche il segno dei rapporti che ha intessuto in sessant’anni di carriera con colleghi e amici. Da chi pensa di aver imparato di più e a chi pensa di aver insegnato di più?
«Non ho imparato ne insegnato nulla». 
In chiusura le chiedo, quale consiglio darebbe a un giovane che oggi intraprende la carriera di fotografo?  
«Passione, amore, coraggio, umiltà e tempo per capire che quello che si fotografa è una riproduzione di noi stessi».
Leonardo Regano

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