07 maggio 2012

L’Islam desnudo

 
Per la prima volta il corpo non è un tabù. E neanche il sesso. Artisti, fotografi, giovani e maturi sono riuniti insieme ne Le corps découvert, la mostra in corso all'Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Che racconta una cultura islamica insospettabile. Quella che scopre il corpo, anche femminile, con i suoi tormenti e i suoi piaceri. Ma anche le violenze e gli inganni [di Livia de Leoni]

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Anche nel mondo musulmano le donne hanno un corpo. Non solo celato dal chador o dal burka, anche scoperto. La mostra all’Institut du Monde Arabe di Parigi mette in scena il nudo svelato nelle arti visive arabe moderne e contemporanee che smentisce apertamente i cliché che lo vorrebbero recluso nei suoi modi di rappresentazione. L’esposizione, curata da Hoda Makram-Ebeid e Philippe Cardinal, rivela una ricca iconografia sul corpo nelle arti arabe attraverso oltre duecento opere di ben 70 artisti. Distribuita in uno spazio di 1000 mq, si divide in diverse sezioni che vanno dall’elogio al corpo, alla sua bellezza, a quello sofferente o portatore di memorie, o come oggetto sessuale. Ma si parla anche di omosessualità – altro tabù svelato – e di gravidanza. Nel percorso espositivo il succedersi cronologico va in secondo piano a favore del tema con una messa a confronto tra generazioni diverse.

Si parte quindi dal primo decennio del secolo scorso durante il quale gli artisti arabi andavano a studiare in accademie europee fino all’apertura di queste, tra l’altro, al Cairo nel 1908 e a Beirut nel 1937. Nelle accademie europee dell’epoca era centrale il ritratto del nudo da modello vivente e, per alcuni tra gli artisti di ritorno a casa, il corpo rimane una figura frequente nelle creazioni, sbocciando tra sensualità ed erotismo in pitture come L’Endormie (1933) dell’egiziano Mahmoud Saïd, in cui un nudo di donna si rivela nella semplicità del riposo attraverso lineamenti carnali messi in evidenza da punti luce e tessuti azzurri, o Nu au coffre (1921) di George Daoud Corm, o Nu devant la ville (1921) di Georges Hanna Sabbagh.

Tra i maestri figura anche il libanese Khalil Saleeby presente con Eve (1901), che ben presto prende le distanze da vari accademismi per avvicinarsi ad un realismo in cui ritrae corpi invecchiati, belli e non, ma anche Mohamed Racim con una superba miniatura del 1930.

La risposta delle nuove generazioni la troviamo in Arabi Asaad con Sleepness (2009) o in Trance del libanese Mohammad El Rawas (2002). Il percorso, lungo ed interessante, ci porta alla scoperta della Fondazione Araba per l’Immagine, nata nel 1997 che salvaguarda un patrimonio, dalla metà del ventesimo secolo fino ad oggi, di oltre 500mila foto di professionisti e amatoriali. In quest’ultima categoria molti sono armeni che, perseguitati, hanno cercato di custodire la loro eredità culturale nei Paesi Arabi. Tra questi emerge Van Léo con un Autoritratto (1942) ma anche Angelo con Danseuse (1954), o Armand (1950) di Hassan Abdel Rahim.

A partire dagli anni Settanta la risposta degli artisti si fa più politica soprattutto da parte delle donne che, sulla scia delle rivendicazioni dei loro diritti, creano opere sempre più provocatorie e promotrici di un’arte libera da costrizioni sociali. Presenti qui molte artiste in cui prevale il tema sull’identità al femminile come in Huguette Caland con Mannequin (2010), manichino svestito e completamente tatuato con la testa coperta da un foulard nero. L’artista libanese è inoltre presente con opere degli anni Settanta vedi Self Portrait I, locandina della mostra, che attraverso un rosa delicato, che copre quasi per intero la tela, ritrae un impercettibile fondoschiena. Nella stessa sezione, che accoglie opere che fanno esplicito riferimento al sesso, risalta l’egiziana Ghada Amer, da tempo a New York e sicuramente l’artista più conosciuta a livello internazionale. Con ricami colorati su tela disegna immagini tratte da riviste pornografiche, a prima vista non decodificabili ma che via via acquistano leggibilità, un modo per porre il tema della sottomissione femminile.

Tra le artiste vanno citate anche le splendide foto di Meriem Bouderbala con Tératogénèse I e II (2011) in cui fotografa se stessa in risposta all’onnipresenza di codici nelle pose della donna araba.

E in questo contesto s’inserisce il discorso sull’Orientalismo che per alcuni diventa spunto per criticare gli standard imposti da una certa visione sull’esotismo all’orientale, mentre per altri diventa ispirazione tout court. È il caso delle foto di Halida Boughriet presente qui con due Sans titre dalla serie Mémoire dans l’oubli, che ricordando i dipinti di Ingres: ritrae vedove che hanno subito la violenza della guerra in Algeria, togliendole dall’oblio a tutela di una memoria collettiva. Ma anche la marocchina Majida Khattari con due foto dalla serie Les Parisiennes (2008-2009), conosciuta anche per i suoi défilé-performance come Voile Islamique Parisien che ha fatto scalpore, oppure l’armena Katia Boyadjian qui con Autoportrait, Un jour de mai, Atelier de Lassan (foto, 1996).

La mostra propone anche una sezione di scultura, con il padre di questa arte: l’egiziano Mahmoud Mukhtar fino ad arrivare a Chaoukini Chaouki con le sue affusolate sculture in legno, ai bronzi di Mahi Binebine, noto inoltre come scrittore impegnato, e a Laila Muraywid autrice di una scultura inquietante (Un doux cercueil de chair, 2011), che denuncia l’uso delle donne come oggetti sessuali.

Catturante l’installazione di Nermine El Ansari, Invisible Presence (2009), in cui ci si ritrova immersi in un blu notte, luci fosforescenti e suoni da cui s’intravede un nudo di donna.

Non mancano dei video che sottolineano l’inquietudine e l’audacia di artisti, spesso delle nuove generazioni, che ravvisano nell’atto creativo uno strumento di lotta contro stereotipi socialmente radicati. Zoulikha Bouabdellah, giovane artista franco-algerina abborda in Dansons (2003) il dialogo fra culture diverse: una danza del ventre con piano fisso sui fianchi avvolti da foulard colorati dal tricolore francese che ondeggiano sul ritmo della Marsigliese. Mentre Camaraderie di Mahmoud Khaled (2009) esplora la natura del sé e del corpo maschile con un viaggio nell’universo dei culturisti professionisti visti in situazioni diverse tra esercizi e pose in campionati vari. Interessante Ping Pong dell’iracheno Adel Abidin (2009) che denuncia la violenza fatte alle donne attraverso la rappresentazione di una partita di ping pong giocata tra due uomini, ma che vede al posto della rete, allungata sul fianco, una donna su cui i rimbalzi della pallina infliggono lividi evidenti e la donna maltrattata è anche una metafora della sofferenza del popolo iracheno. Accattivante You will be killed (2006) di Amal Kenawy, parte da una serie di disegni, la foto del volto dell’artista stessa che si scontra nel suo ambiente, per parlare della guerra, della violenza. Infine l’artista marocchina Fatima Mazmouz con Le mode grossesse – la danse du ventre (2009), rivisitando la nudità del ventre in gravidanza in una società che lo vuole nascondere, lo svela per prenderne coscienza.

“Le corps découvert” è, insomma, una mostra insolita, irriverente e che racconta molte cose del mondo e della cultura araba. Soprattutto, è una mostra da non perdere.

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