12 settembre 2012

Grandi mostre/Parigi Il grido del cuore del mondo

 
"Naif", "autodidatti" o "primitivi", cinquanta artisti contemporanei provenienti da svariate parti del mondo sono riuniti alla Fondation Cartier di Parigi. Rivelano un immaginario sorprendentemente moderno. Dove emergono archetipi appartenenti a tutta l'umanità, attraverso antenati del futuro e spiriti ancestrali, arti prime e ultime. E dove ad esaltarli è una magnifica mise en espace di Alessandro Mendini

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«Una scenografia pensata come uno scrigno in cui l’arte è in stretta relazione con l’ipersensibilità del cuore», dichiara Alessandro Mendini (1931, Milano), ed in questo  forziere troviamo oltre 400 opere tra film documentari, sculture e disegni che rimandano all’Art Brut, ma anche ceramiche e sorprendenti ricami, alcune opere restituiscono oggetti cerimoniali, altre animali esemplari, ma in tutte sgorga spontaneamente il meraviglioso, la magia, il sacro, la relazione con lo sconosciuto, l’invocazione di forze e simboli. Opere per lo più figurative che si avvalgono spesso di materiali poveri come il legno o il pennarello, in cui affiorano motivi pittorici sorprendenti nel quale il mondo vegetale si rivela attraverso tratti puliti e colori del tutto immaginari, un vero richiamo all’infanzia di ognuno.

Tra gli elementi della scenografia, dai toni delicati del blu, giallo, malva, verde e marrone, in contrasto colle tinte forti delle opere, varie schede descrittive sugli artisti e le loro opere, che si erigono come totem bianchi di quasi due metri di altezza, belle le basi in stile Mendini, ora serpeggianti ora a cerchio o triangolo che accolgono insiemi di sculture. In questa creazione contemporanea proveniente dal Giappone, Brasile, Danimarca, Haiti, India, Messico, Senegal, Congo, Paraguay e Serbia il sogno sembra essere l’asse creativo che manifestandosi con diversità restituisce relazioni impensabili come tra le opere grafiche di Chano Devi (1938, Jitwarpur, Stato di Bihar, India) e la semplicità monocromatica delle sculture di Dragiša Stanisavljevic (1921, Jabucje, Serbia). Il percorso espositivo, curato da Hervé Chandès, si apre con un magnifico Cavaliere di Dürer di Mendini, omaggio al lavoro di Dürer e al mosaico bizantino, di poco preceduto dalla sua popolare Poltrona di Proust, in onore allo scrittore Marcel Proust, qui in arancio, altre simili sono sparse nel giardino dello spazio espositivo separato da grandi vetrate trasparenti.

Mendini è di casa alla Fondation Cartier, dieci anni fa ha esposto in “Fragilisme”, una mostra sull’effimero. Tra i rinnovatori del design italiano, nel 1994 Mendini rivalorizza l’arte del mosaico e lo fa in qualità di direttore artistico a Bisazza, l’industria italiana che ha ridato un nuovo volto al mosaico di vetro, per la quale crea la collezione Mobili per Uomo. Tra le sue opere in mosaico, oltre al Cavaliere, troviamo realizzata una piccola cattedrale multi religiosa, una miniaturizzazione di un’architettura medievale, al suo interno è custodita un’enorme testa d’uomo in vetro e oro, le proporzioni rompono i classici rapporti armonici per fare posto a relazioni più intense tra l’uomo moderno e nuovi idoli.

Seguono, tra gli altri, i dipinti di Hans Scherfig (1905, Copenaghen- 1979, Hillerød – Danimarca), con giungle e animali inventati l’artista danese è riuscito, senza mai viaggiare, a regalarci atmosfere sorprendenti. Presente Tadanori Yokoo (1947, Tokyo, Giappone), uno dei più grandi grafici giapponesi, con reinterpretazioni di opere di Henri Rousseau in cui introduce, sulla scia della tradizione estetica giapponese, un elemento sorprendente restituendo l’opera con umorismo e senso ludico. Tra i ricami quelli di Sibrun Rosier (1956 Palmiste-à-vin, Comune di Léogâne, Haiti) e di Jean-Baptiste Jean Joseph (1966 Ditête, Comune di Bainet, Haiti), che rappresentando i Vèvès (segni distintivi degli dei) e ci narrano di rituali vudù propri alla cultura haitiana. Per la ceramica Virgil Ortiz (1969, Cochiti Pueblo, Messico) presenta buffe statuette bicolori su fondo neutro perlopiù a due teste, queste sono create partendo da una fotografia del 1885 di Ben Wittick in cui sono raffigurate ceramiche Cochiti a Albuquerque che rappresentano saltimbanchi o commessi viaggiatori.

In quest’ambito l’artigianato, oltre a mantenere forte il legame tra passato e presente, acquista una valenza sociale e politica perché diventa una risposta a quel potere che vuole soverchiare culture ritenute non lucrative, ed in questa battaglia che l’artigianato diventa arte, la creazione dell’oggetto diventa gesto artistico. Non mancano le produzioni dei disegnatori Huni Kuĩ, dal nome del popolo che vive nell’ovest dell’Amazzonia brasiliana, tra questi lo sciamano Ibã per conservare la cultura del suo popolo, espropriato dalla terra d’origine, recita canti tradizionali mentre artisti creano, nascono così i “disegni di canti”. Fuori da sceneggiature preconfezionate i filmati dell’artista guarani Ariel Kuaray Poty Ortega (1985, Tamandua, Argentina – vive in Brasile) che grazie al sostentamento di Vídeo nas Aldeais, realizza filmati sul quotidiano della comunità mbya guarani, come il Desterro Guarani (Esodo Guarani) del 2011. L’obiettivo è resistere agli stereotipi negativi della storia ufficiale, salvaguardare l’entità della cultura del suo popolo facendo parlare gli anziani, riappropriandosi così della memoria tessendo relazioni innovative come tra lo spirito della foresta e internet. Il risultato è un cinema che è uno specchio per noi che scopriamo una realtà altra e per le popolazioni stesse che si riscoprono in qualità di abitanti di uno dei luoghi in cui la biodiversità è tra le più elevate del pianeta.

Tra le sculture, le coloratissime teste di tigre di perle su legno di Gregorio Barrio (1978, San Andrés Cohamiata, Stato di Jalisco, Messico) artista huichol della Sierra Madre Occidentale del Messico, che nelle sue opere riprende l’arte delle composizioni di perline di vetro colorato mantenendo il connubio tra arte, sciamanesimo e ricerca della visione. Surreali e policromi i percorsi urbani di Mamadou Cissé (1960 Baghagha – Casamance, Senegal) che dispiegandosi come labirinti, metafore del mondo terreno e del viaggio, ci immergono in un caos ordinato, criticando una società del consumismo suggeriscono invisibili storie sotterranee. Ma tra i vari archetipi come il cavaliere, i labirinti e le rappresentazioni della madre col figlioletto della ceramista brasiliana Isabel Mendes da Cunha (1924, Itinga, Stato di Minas Gerais, Brasile) affiora l’archetipo del Sé, nel senso junghiano, quello che tra coscienza ed inconscio fonde le varie peculiarità della psiche compiendo l’esperienza spirituale.

È in questo processo psichico che sembrano apparentarsi questi artisti, nella loro ricerca con un’antica relazione con la natura, in un confronto tra istinto di sopravvivenza e l’organizzazione per tutelarla. Tra i soggetti rappresentati troneggia la natura rivista attraverso la foresta e una ricca vegetazione e varietà di animali, tutto ciò a cui questi artisti si sentono “normalmente” legati come facenti parte di un unico corpo, e dalla forza di questo legame nascono creazioni che riaffermano la lotta contro la minacciata deforestazione e la conseguente scomparsa delle popolazioni e delle loro culture. Una mostra importante e necessaria, quindi, non solo per questi artisti che vengono spesso rilegati in circuiti periferici, ma perché spinge a vedere diversamente e a ripensare i rapporti al quotidiano, come suggerisce magistralmente l’opera di Mendini della cattedrale con il suo idolo.

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