12 marzo 2017

Ma l’arte è una malattia che va curata?

 
Non si tratta della Sindrome di Stendhal, ma del “prendersi cura di”. E forse oggi, se c’è una “malattia”, consiste nella prevalenza della figura del curatore su quella del critico

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In occasione della seconda edizione del Convegno Internazionale Una cura per l’arte. Critica, interpretazione, scrittura che si è svolto a Verona, abbiamo incontrato alcuni protagonisti di questa sessione di lavori: il curatore del progetto, Roberto Pasini, storico, critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Verona, sede dell’evento; Andrea Bruciati, ex direttore artistico di ArtVerona, ora al vertice del polo museale che comprende Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli e Patrizia Nuzzo, Responsabile Direzione artistica e delle Collezioni d’Arte Moderna e Contemporanea della GAM-Galleria Arte Moderna Achille Forti di Verona. A loro abbiamo rivolto alcune domande sulla curatela. 
Come è nato il progetto di “Una cura per l’arte” e da quale “malattia” l’arte deve essere “curata”?
Roberto Pasini: «Il progetto è nato per una esigenza di chiarezza, e si ripete ogni due anni chiamando al convegno i protagonisti del sistema dell’arte (professori, storici e critici d’arte, direttori di musei e fiere d’arte, ecc.). È necessario capire che cosa sia oggi la figura del critico d’arte e che cosa sia quella del curatore, dal momento che quest’ultima, nel bene o nel male, ha superato in curva la prima, della quale sembra non esservi più traccia nel caleidoscopio internazionale delle manifestazioni artistiche. Sono e resto convinto che se in principio è l’arte, essa possa essere solo e primariamente interpretata dall’atto critico (dal greco krino, divido, analizzo, interpreto, infine giudico), preliminare a qualsiasi forma di comunicazione e esposizione, e dunque la figura del curatore venga dopo, integrandosi semmai a quella del critico. La “malattia” è quindi una sorta di mutazione genetica dei critici in curatori freelance: siamo passati da una professionalità che deve avere una seria vocazione scientifica ad una operatività – talora estemporanea – che invece sembra porre l’accento soprattutto, quando non soltanto, sulla dimensione di marketing, visibilità e successo: tutti aspetti, intendiamoci, da non sottovalutare, ci mancherebbe, ma che oggi rischiano in molti casi di svilire la funzione critica, semplicemente abolendola».
In che modo la figura del curatore e quella del critico dovrebbero completarsi o addirittura coincidere?
R.P.: «Arte, critica, cura: questa è la triade in ordine logico e cronologico. Quindi prima di tutto occorre una forte capacità interpretativa da parte del critico, e una altrettanto valida chiarezza linguistica per produrre testi che poi concorrano, insieme agli altri contributi interpretativi e operativi, alla premessa di quella che più avanti sarà la traccia della storia dell’arte. Ovviamente un critico può limitarsi a redigere testi su riviste e giornali o invece operare nel settore delle mostre: in questo caso, che è auspicabile per dare alla sua figura la pienezza espressiva, diviene curatore ipso facto, se ne ha le capacità. E dunque la dimensione curatoriale non può prescindere dalla preparazione scientifica che è richiesta alla critica, intesa nel senso più nobile del termine e non come mera attività di promozione e lancio di artisti, per quanto anche questa abbia la sua funzionalità. In tal senso dire critico e dire curatore è la stessa cosa. Un critico può e deve essere anche curatore, un curatore non può non essere anche un critico: purtroppo questa seconda opzione oggi viene spesso disattesa, dal momento che il pensiero critico presente in gran parte delle mostre è ormai misera cosa, a tutto vantaggio della promozione massmediale e delle logiche di cassetta».
Roberto Pasini
Nella difficile situazione in cui versano le istituzioni museali e nella complessa vicenda che ha riguardato in particolare la GAM e la sua collezione, spostata da Palazzo Forti a un contenitore altrettanto prestigioso come Palazzo della Ragione, ma decisamente meno capiente in termini di spazi, qual è il suo progetto per il presente e il futuro della Galleria?
Patrizia Nuzzo: «Vorrei lavorare su tre fronti: sulla valorizzazione della collezione con allestimenti che si rinnovano annualmente mettendo in luce di volta in volta autori o movimenti, una sorta di “mostra nella mostra”; sul contemporaneo insieme agli stessi artisti privilegiando quei progetti trasversali che contribuiscono a restituirci lo spirito del tempo, lo Zeitgeist, in maniera autentica e non attraverso la ormai usuale spettacolarizzazione effimera; ed infine sul rapporto con il pubblico. Ovviamente queste tre voci richiamano numerosi altri aspetti, quali innanzitutto l’incremento del patrimonio grazie soprattutto ad  una politica di donazioni  – abbiamo istituito a tale proposito il PREMIO OTTELLA – che sta accrescendo notevolmente la nostra collezione con opere di assoluto rilievo; a ciò aggiungerei le campagne di restauro e catalogazione. Ma è necessario anche uno sguardo sempre attento alla fruizione: dalla sezione didattica per un miglioramento della nostra offerta con nuovi progetti, alle iniziative di sviluppo e promozione che comunque debbono necessariamente inserirsi in una programmazione coerente rispetto all’identità della Galleria».
Patrizia Nuzzo
Sotto la sua direzione ArtVerona si è trasformata da evento fieristico a progetto culturale a 360°. Che cosa significa seguire la direzione artistica di una fiera e come si costruisce un progetto curatoriale per un evento che si compone di ambiti vasti e diversificati?
Andrea Bruciati: «Una fiera d’arte contemporanea è un organismo complesso dove convergono differenti competenze, sensibilità e necessità. È inoltre una piattaforma che risponde a dinamiche territoriali precise e che si confronta con un network internazionale: deve pertanto trovare il giusto punto d’accordo fra la sfera culturale e l’ambito commerciale, sempre attenta al valore qualitativo delle proposte. Per ArtVerona ho cercato di costruire un progetto originale sul Made in Italy che rappresentasse una sintesi inedita delle due istanze: un modello dalla forte connotazione identitaria per poter essere credibili su entrambi i fronti senza scadere da un lato nel provincialismo e dall’altro nell’omologazione dei grandi brand». 
Punti deboli e punti di forza dei curatori e dei critici di oggi. Cosa significa oggi “fare bene” e “fare male” in questi ambiti professionali?
A.B.: «Di certo vi è una maggiore specializzazione scientifica degli operatori, una più puntuale competenza e informazione, per il costituirsi di una categoria professionale sempre più conforme agli standard internazionali. Ciò che si qualifica come strumento metodologico virtuoso però spesso non va oltre al dato organizzativo: si pone come limite strutturale nel momento in cui manca personalità e passione nella definizione di un progetto, peculiarità che ravviso in pochi soggetti. Spiace dirlo, ma emerge soprattutto nei giovani la mancanza di mettersi in gioco seriamente: vedo proposte omologate e dal facile plauso in nome dell’ambizione e di un successo, e la conseguente visibilità, immediati. Evidenzio, anche fuori dai confini nazionali, poche voci fuori dal coro: tutto risulta molto noioso e autoreferenziale, dettato da un agire prevedibile e senza coraggio, da burocrati ‘vecchi dentro’».
Andrea Bruciati
Qual è secondo voi il profilo ideale di un curatore e di un critico e come si costruisce?
P.N.: «C’è moltissima confusione oggi nel definire un curatore, nel senso che è opinione diffusa che chiunque si occupi di arte può “autoinvestirsi” anche di questo ruolo. Ho assistito di recente ad una presentazione in cui il relatore esortava i giovani  a “fare” i curatori unicamente perché stavano frequentando il liceo artistico! Non saprei esprimere una formula perfetta che possa tratteggiare il curatore ideale. Personalmente non ho fatto corsi, ho sperimentato”sul campo” lavorando per circa venticinque anni all’attività espositiva della Galleria in principio come assistente poi in autonomia,  per cui mi verrebbe da suggerire ciò che metto in campo quando preparo una mostra: competenza, intuizione e divertimento».
A.B.: «Non credo che esista un unico modello o ideale: reputo invece che debbano essere ben chiari gli obiettivi che si vogliono perseguire per la realizzazione di un proprio pensiero, anche apparentemente utopico. Mi piace molto l’idea di ‘costruire’ una professione perché con queste modalità ritengo che il curatore cresca, pur sbagliando a volte, in modo sano con l’esperienza e in base alle proprie conoscenze. Rifuggo invece dalle formule preconfezionate e depersonalizzate, che combatto sistematicamente».
Quali consigli dareste a giovani aspiranti critici e curatori e quali suggerimenti indirizzereste invece a chi già opera in questo campo?
R.P.: «Beh, ai primi ovviamente di studiare i miei libri, magari La dispensa di Suzanne. Miti, errori e false credenze nell’arte contemporanea e Che cos’è l’arte?… A parte la battuta, direi di lavorare sodo e con umiltà, di andare negli studi degli artisti e di dialogare con loro, pur senza lasciarsi condizionare dalla dimensione umana, perché ciò che conta è sempre e solo l’opera, di visitare le mostre e coltivare una formazione sostanziosa, calibrandola sulle esigenze dell’attualità, ma senza lasciarsi irretire dalle lusinghe del protagonismo e dei ritorni economici. Ai secondi non posso che augurare buon lavoro, nella speranza che all’interno delle loro scelte vi sia posto anche per l’arte (e il pensiero critico) e non solo per la cura». 
P.N.: «Sicuramente conoscere bene la storia dell’arte, non solo quella contemporanea, supportata da approfondimenti nel campo dell’estetica e della filosofia. Per chi opera già in questo campo meno autoreferenzialità e più lavoro di squadra». 
A.B.: «Consigli: studio approfondito e curiosità onnivora nonché rispetto per i propri interlocutori, ma questo forse è valido per qualsiasi categoria professionale».

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