20 luglio 2017

La storia americana, a Parigi

 
Al Centre Pompidou è di scena il grande occhio di Walker Evans sugli Stati Uniti di ieri. Intrecciando società, storia della fotografia e guardando alla letteratura francese

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Affascinato dalla cultura vernacolare, Walker Evans (Saint Louis, 1903 – New Haven, 1975) serpeggia per le strade statunitensi per cogliere compulsivamente passanti, insegne, case, chiese e comunità rurali barcollanti tra le pieghe della grande depressione, e non solo. Per cinquanta anni il fotografo statunitense ha registrato il divenire di gente comune, restituendo alla storia dell’umanità l’autenticità delle loro esistenze, onorando l’ordinario con scatti ben lontani dalle cosiddette foto d’arte. Curata da Clément Chéroux e Julie Jones, la retrospettiva al Centre Pompidou di Parigi presenta 300 stampe vintage provenienti dalle principali collezioni internazionali. Un excursus che parte dagli anni venti fino agli anni settanta in cui si afferma la passione di Evans per la Polaroid SX-70, che userà a iosa per immortalare anche i familiari. La fotografia certo, ma accompagnata da centinaia di documenti ed anche molti oggetti tra cartoline, piatti smaltati e locandine pubblicitarie, tra i quali spiccano caratteri tipografici vari che ci parlano più direttamente di un epoca o di un prodotto. Insomma tanto materiale che il Evans ha collezionato febbrilmente per tutta la vita, alla ricerca delle icone popolari del suo Paese. 
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Alabama Tenant Farmer Floyd Bourroughs 1936 Épreuve gélatino-argentique Collection particulière, San Francisco © Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art Photo © Fernando Maquieira, Cromotex
L’esposizione inizia con autoritratti presi in cabine fotografiche, tra cui uno scatto del 1927 in cui esplode, tra follia e genialità, l’espressione di grinta di Evans immersa nei tratti sfocati del volto. Il giovane fotografo stava forse testando la velocità dell’otturatore? Una chicca che preannuncia una bella mostra tematica alla scoperta di uno dei più importanti fotografi del ventesimo secolo, capostipite della tradizione documentaria fotografica americana. Un autoritratto che traccia sin dall’inizio le intenzioni del giovane, perché in quel ritrarsi c’è la voglia di cogliere, attraverso uno sguardo lucido e senza alcuna messa in scena, il dettaglio rivelatore di uno stato d’animo, o meglio quel certo non so che di “trascendentale”, come lui stesso sottolineerà in un’intervista rilasciata a Leslie Katz nel 1971. Ciò che lo porterà a preferire le istantanee e un’inquadratura pulita per fa emergere il soggetto. La mostra ci presenta certo gli esordi modernisti, il reportage a Cuba, il lavoro per la Farm Security Administration (FSA) e quelli per la rivista Fortune, ma qui l’approccio è tematico e non cronologico. «L’analisi tematica offre la possibilità di coinvolgere maggiormente fotografie distanti nel tempo o nello spazio e far emergere le ossessioni di Evans per alcuni argomenti come i segni tipografici», sottolinea Clément Chéroux, senior curator della fotografia presso il MoMA di San Francisco.
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Penny Picture Display, Savannah 1936 Épreuve gélatino-argentique The Museum of Modern Art, New York Gift of Willard Van Dyke © Walker Evans Archive The Metropolitan Museum of Art Photo © 2016 Digital Image, The Museum of Modern Art
Scopriamo così i volti di passanti anonimi colti per strada o nella metro, venditori di frutta e verdure, operai, lavoratori portuali, senzatetto, o luoghi come stazioni di servizio, vetrine di piccoli negozi o case vittoriane e certo i ritratti di tre famiglie della Contea di Hale, in Alabama, quali i Fields, i Tingle e i Burroughs. Siamo nel 1936 quando lo scrittore James Agee, a cui la rivista Fortune ha ordinato un reportage sui mezzadri, domanda a Evans di accompagnarlo. Ribelle e controcorrente, Evans fu il primo fotografo a far parte dello staff della nota rivista economica, nel settembre del 1945. L’articolo dell’epoca, invece, non sarà pubblicato ma Agee ne trarrà il libro Let Us Now Praise Famous Men, che uscirà nel 1941, con 31 fotografie senza didascalie di Evans, diventate oggi icone della grande depressione. Tre famiglie toccate dalla povertà, che vivono in interni umili tra mobili ed utensili posti dignitosamente, con le quali Agee e Evans hanno condiviso il quotidiano per quattro settimane, un quotidiano che una parte dell’America sembra ignorare. Tra le foto, che l’inquadratura stringe intorno ai volti, c’è quello di Allie Mae Burroughs. Chi è Allie Mae? 4 figli, 27 anni, moglie di un mezzadro del cotone dell’Alabama, Floyd di 31 anni, che  coltivano una decina di ettari di cui dividono la metà del raccolto con il proprietario terriero. Un volto, quello di Allie Mae, che ha fatto strada e che ritroviamo per esempio nel 1982 in After Walker Evans di Sherrie Levine.
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Allie Mae Burroughs, Wife of a Cotton Sharecropper, Hale Country, Alabama 1936 Épreuve gélatino-argentique 22,3 x 17,3 cm Collection particulière © Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art Photo
Qual è lo stile di Evans? Documentario di certo, ma che nasce dalla sua passione per la letteratura francese, quella firmata da Flaubert  e da Baudelaire, ma anche dai cliché della vecchia Parigi di Eugène Atget conosciuti grazie alla fotografa ed amica Berenice Abbott, e certo da Blind women (1916) di Paul Strand, foto che scopre sulla rivista Camera Work di Alfred Stieglitz. Ed infine da Honoré Daumier con Il vagone di terza classe (1862), una denuncia della povertà che ispirerà la sua nota serie Subway Portraits  (1938-1941). Uno stile diretto che passa attraverso una forte coscienza sociale e che si formalizza, come lui stesse definì, attraverso una “professione di fede”. Una pratica dello sguardo che in Evans si rivela attraverso dettagli che ci parlano anche di ciò che non si vede. Una mostra che vale la pena di non perdere e per dirla con le parole di Evans «Una buona mostra è una lezione per lo sguardo» (Boston Sunday Globe, agosto, 1971). A proposito di dichiarazioni, nel 2001 Cartier-Bresson scrisse in una lettera indirizzata a Peter Galassi (allora curatore al MoMA) : “Se non ci fosse stata la sfida rappresentata dal lavoro di Walker Evans, non credo sarei rimasto fotografo”. Avete tempo fino al 14 agosto. 
Livia De Leoni

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