01 agosto 2017

L’istrione-eretico del concetto

 
Vincenzo Agnetti è adesso, a Milano. Con lettere, numeri, aforismi lapidari, teoremi e immagini paradossali in cui la poesia trionfa sulla ragione

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“A cent’anni da adesso” è il paradossale sottotitolo dell’imperdibile mostra antologica dedicata a Vincenzo Agnetti (1926-1981), ospitata al piano terra di Palazzo Reale a Milano, a ingresso libero, a cura di Marco Meneguzzo con la collaborazione dell’archivio Vincenzo Agnetti. 
Poeta, scrittore, critico, attore, regista, lucido “istrione” della parola, protagonista dell’arte concettuale, non facile ma neppure così ermetico com’è stato comunicato fino ad oggi, amico di Piero Manzoni per il quale ha scritto la prefazione alle sue Tavole di accentramento e Intervento per la linea, si mostra nella sua complessità, ma questo è il suo fascino. 
Con Manzoni e Enrico Castellani, l’autore ha condiviso l’esperienza di Azimuth (rivista e galleria tra il 1959 e il 1960), e come loro è stato un innovatore nell’ambito concettuale, ricercatore di relazioni, ambivalenze, intrecci tra la parola, l’immagine e la poesia e più in generale tra linguaggio universale ed espressione individuale. 
Il percorso espositivo inizia con una teca dove fanno capolino alcuni quaderni scritti dall’autore in Argentina (1962-67): sono appunti sparsi, una documentazione della sua frenetica attività che permette a un pubblico eterogeneo, non soltanto specialistico, di addentrarsi nel suo universo paradossale, analitico e poetico al tempo stesso, attraverso più di cento opere disposte in ordine cronologico realizzate tra il 1967 e il 1981. 
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AGNETTI. A cent’anni da adesso. Immagine allestimento. Milano, Palazzo Reale. Ph Franco Russo
Agnetti, figlio dei concettualismi degli anni’70, opera in bilico tra il particolare e l’universale, tra individuo e massa, come dimostrano i suoi complessi lavori sui quali meditare, attuali ieri, oggi e domani perché sovvertono i sistemi linguistici, i meccanismi verbali, affiancati da didascalie tratte dai suoi scritti, e da una frase di Oscar Wilde che Agnetti citava spesso: “Non si può evitare il futuro”. 
Le sue opere sono paradossali assiomi di un tempo spostato verso il domani, dilatato, al contrario del linguaggio che è Tradotto Ridotto Dimenticato, oppure Tradotto Azzerato Presentato, come svela l’opera Il tempo è il percorso dello spazio (1970). Questi e altri lavori colgono l’essenza del suo interesse per i processi mentali in cui però sempre compare la componente emozionale, umana, incluse le sottintese relazioni tra testo e immagini, fermenti politici e ideali degli anni’70 e la contemporaneità, perché per il maestro tutto è linguaggio. Comunicazione e immagini e parole fanno parte di un unico pensiero: “A volte la pausa, la punteggiatura, è realizzata dalle immagini, a volte invece è la scrittura stessa”, scriveva Agnetti. 
Questa mostra valorizza oltre all’investigazione dell’aspetto semiologico o filologico del linguaggio, come era tautologico nell’arte concettuale nell’ambito dell’Art & Language, quello narrativo, poetico e immaginifico dell’artista intellettuale, definito da Marco Meneguzzo “un eretico” per le sue lucide emozioni, dalla poetica complessa intrisa di letteratura e cultura italiana, erede di De Saussure, Wittgenstein, Duchamp e Marshall McLuhan, intrecciando cortocircuiti visivi e cognitivi, mettendo in scena postulati e formule logiche, frasi icastiche capaci di aprire imperiture riflessioni sull’arte del linguaggio, perché come suggerisce l’autore “L’arte è la deposizione del pensiero e il pensiero è la dilatazione dell’arte”. 
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AGNETTI. A cent’anni da adesso. Immagine allestimento. Milano, Palazzo Reale. Ph Franco Russo
Con questa mostra antologica dedicata a questo artista viaggiatore curioso, internazionale per spirito indomito e vocazione di ricercatore, che in seguito all’Accademia di Brera ha frequentato la scuola del Piccolo Teatro con Giorgio Strehler, il Comune di Milano (dopo le esposizioni dedicate a Piero Manzoni, Emilio Isrgò e Arnaldo Pomodoro) persegue l’obiettivo di valorizzare l’originalità sperimentale di una generazione di artisti milanesi per nascita o adozione degli anni ’50 e ’60 che sdoganano il capoluogo lombardo nel mondo. 
Tornando all’esposizione, da leggere tra una frase e l’altra, si imprimono nella nostra memoria le sue parole o aforismi lapidari, metafisici, incisi anche su feltro, bachelite e su superfici per lo più bianche o nere. Svelano l’appeal teatrale le fotografie tratte dalle sue performance, da investigare con la lente dell’ambivalenza semantica, che hanno dato forma a pensieri intorno al ruolo dell’arte: il muscolo del cervello che attiva immagini, transazioni, negoziazioni tra analisi e poesia, ragione ed emozione, in maniera più “calda” dalla freddezza analitica propria agli artisti concettuali americani o di Joseph Kosuth. 
Attratto da numeri, principi matematici, teoremi geometrici, aforismi a parte, Agnetti è riuscito a tenere una tensione formale narrativa davvero unica, come svela l’opera incisa nel feltro Quando mi vidi non c’ero, il suo autoritratto, affiancata da altri feltri come Ritratti e Paesaggi, degli anni ’70. 
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AGNETTI. A cent’anni da adesso. Immagine allestimento. Milano, Palazzo Reale. Ph Franco Russo
Rappresenta un principio e una fine l’opera Il Libro dimenticato a Memoria (1971), una summa poetica che sintetizza la ricerca sul baratro del “possibile” di Agnetti introno alla memoria e alla dimenticanza. E in questo contesto non poteva mancare la sua nota istallazione che occupa una stanza intera di Palazzo Reale dal titolo Progetto per Amleto Politico (1973): 60 ingrandimenti fotografici di bandiere di nazioni del mondo e testi stampati su alluminio che contornano il palco da cui l’Amleto di Agnetti arringa la folla, in cui si ascolta un monologo recitato dalla sua voce seducente, con intonazioni teatrali anche nell’elenco di numeri scaditi come fossero parti del discorso. Quest’opera fa parte del suo progetto del “teatro statico”, un altro paradosso in cui parola e forma plasmano riflessioni anche contraddittorie sul linguaggio e il suo contenuto. É nota La Macchina Drogata (1968), calcolatrice Olivetti Divisumma 14 (così veniva chiamato il modello MC 14 D) modificata, oggetto cult di per sé, tra i primi lavori dell’autore che genera lemmi a ruota libera, sostituisce le operazioni con le parole per lo più senza significato: ogni qual volta lo spettatore pigia un tasto, al posto di numeri escono lettere in combinazioni arbitrarie, sovrapproduzioni intraducibili con l’obiettivo di lavorare sulla “decostruzione delle narrazioni”. 
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AGNETTI. A cent’anni da adesso. Immagine allestimento. Milano, Palazzo Reale. Ph Franco Russo
Il manifesto della mostra e la copertina del catalogo (Silvana Editoriale), è già la dichiarazione d’intenti della ricerca artistica di Agnetti: l’autore è fotografato nell’ambito di una perfomance a New York in cui lo si vede inciampare come Buster Keaton tra una pila di fogli volanti, come se fosse schiacciato dal peso dei suoi pensieri troppo veloci. Tra gli altri lavori più significativi realizzati con la fotografia non smette di sorprenderci l’Autotelefonata (1972), la sequenza fotografica che rappresenta un tableau vivant in cui Agnetti si ascolta maneggiando due cornette del telefono per scomparire poi, lasciando trapelare quel filo di ironia che lo caratterizza anche in altri lavori. Sono da guardare come saggi di trasversalità espressiva anche le opere:Tutta la Storia dell’arte in questi tre lavori, L’età media di A, e altri inediti come Architettura tradotta per tutti i popoli, e altri lavori poco conosciuti come Riserva di Caccia
Anche per Agnetti come per altri artisti concettuali l’uso della fotografia allude al rapporto mezzo-messaggio: tra le sue ultime opere, infatti, ci sono le Photo-Graffie (1979-1981), carte fotografiche esposte alla luce e graffiate che configurano paesaggi mentali, come le Stagioni (1980), che aprono il periodo più lirico, emozionale di Agnetti, un concettuale sui generis scomparso prematuramente nel 1981, e più che mai vivo con lo sguardo proteso verso il futuro, dentro il processo trasformazione implicito al tempo, declinato in un eterno presente. 

Jacqueline Ceresoli

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