07 novembre 2017

Quel che resta del non-detto

 
Sarà la bellezza a salvare il mondo o l'etica di azioni che metaforizzano l'orrore di “imprese collettive non eroiche”? Un risposta dal progetto torinese di Fatma Bucak

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Quando tre donne appassionate, preparate e determinate si trovano per condividere progetti culturali impegnati e non vacui e capricciosi sul fronte di promozione e valorizzazione dell’arte contemporanea, i risultati sono evidenti e pubblico e critica ringraziano. Stiamo Parlano di Pinuccia Sardi, piemontese sognatrice con i piedi per terra, fondatrice dell’omonima fondazione nata nel 2014, che tra le altre plurime attività di sostegno di giovani artisti, critici, studiosi, curatori, studi e ricerche che comprendono aree d’intervento diverso, da anni è alle prese con l’ambizioso progetto di pubblicazione del catalogo ragionato ufficiale delle opere di Carol Rama, che sarà pronto nel 2019. Fatma Bucak, nata nel 1984 a Iskenderun, sulla frontiera tra Turchia e Siria, (in mostra con Promised Land. A study of eight landscape (2014) anche nella nuova sezione “Deposito d’arte italiana presente” quest’anno ad Artissima), è un’artista transnazionale che ha studiato filosofia all’Università di Istanbul, storia dell’arte e dell’incisione a Torino, presso l’Accademia Albertina di Belle Arti e completato il suo percorso formativo con un Master in fotografia alla Royal College di Londra, dove tutt’ora vive e lavora quando non è a Istanbul. La sua ricerca comprende fotografia, perfomance, sound e video in cui opere, forme, gesti diventano dispositivi del pensiero e agenti della cultura in rapporto alla storia e memoria. Infine Lisa Parola, curatrice della Fondazione Sardi e della mostra personale di Fatma Bucak, intitolata “Remains of what has not been said”, esposta per la prima volta in Italia nella Biblioteca Graf della Facoltà di Lettere e Filosofia a Torino per ancora pochissimi giorni, dove storia, memoria, identità sono di casa. In una delle sale più auliche e maestose di Palazzo del Rettorato Juvarriano in via Po 17, arredata da libri dell’Otto-Novecento di arte, filosofia, letteratura, linguistica, l’installazione di Fatma Bucak composta da una serie di fotografie diventa un manifesto etico e politico contro la strumentalizzazione della violenza diffusa e la censura. 
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Veduta della mostra Fatma Bucak Remains of what has not been said, Biblioteca Graf, ©Rubrastudio.

Le 84 fotografie in mostra sono ottenute secondo un processo temporale che comprende la raccolta e la catalogazione quotidiana dei principali giornali turchi dal 7 febbraio del 2016, un giorno funesto detto del “Massacro delle cantine” per le uccisioni avvenute a Cizre nel sud-est della Turchia, di cui molti ignorano il fatto perché non è stato comunicato. Sono immagini ieratiche, silenti di immediato impatto visivo in cui si fondono pathos e aura classica che superano i confini dell’identità politica e intrecciano riflessioni sul rapporto di narrazione tra cronaca e storia, arte e etica. Questa ennesima carneficina e azione di censura perpetuata in Turchia e in Europa ci pone domande sugli avvenimenti tragici contemporanei, negli orizzonti globali e della comunicazione digitale, con il rischio di omologare fatti cruenti come la repressione, che universalmente rappresenta la violazione dei diritti umani. 
Il percorso espositivo incomincia con il video Scouring the press, ambientato in una landa desolata, desertica, quasi una “discarica” ai confini dell’oblio dell’umanità in cui due giovani donne curde e l’artista,  dalle lunghe chiome rosso Tiziano, vengono riprese in un atto dal valore rituale e simbolico mentre, lentamente, lavano le pagine dei quotidiani raccolti dentro ampi catini d’acciaio, come panni sporchi sino a rendere i fogli anonimi, privati dalle informazioni, ridotti a cumuli di carta a perdere. E questo atto di sottrazione, gesto metaforico di privazione dell’informazione, si palesa e immortala nelle fotografie con un “diario visivo” dalla tensione formale, compositiva e cromatica d’impostazione classica davvero emozionante. 
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Fatma Bucak, Remains of what has not been said, 2016 23×28,5 cm Eighty-four digital archival pigment prints

Le 84 immagini disposte lungo le pareti rigorosamente bianche giocano sull’ambivalenza percettiva, incantano per la loro poetica bellezza, con dettagli, ombre chiaroscuri che sembrano dipinti a olio. I gesti dell’artista ci appaiono raggelati oltre il tempo, e lo spazio, documentati da una metafisica sequenza quasi cinematografica d’immagini  in cui si vedono le mani che sorreggono contenitori di vetro su sfondo nero Caravaggio, contenenti l’acqua sporca rilasciata dai giornali mondati dalle tre Parche nel video. Mentre il liquido nero raccolto e centellinato in vasi trasparenti segnati da una data viene porto come una reliquia laica al pubblico dalle bianche e diafane mani di Fatma. 
Il suo gesto simbolico corrisponde a una invocazione universale per non dimenticare le imprese collettive non eroiche della nostra civiltà dall’equilibrio precario, sull’orlo del baratro, in cui omettere la cronaca, la memoria, il ricordo di mattanze dell’umanità in un mondo devastato dalla violenza, corrisponde al pericolo dell’oblio della storia. Per l’artista arte e cultura, cronaca e finzione , immagine e contenuto sono l’espressione di concetti trasversali, presupposti d’investigazione filosofica, per ricomporre mondi, perlustrando luoghi di confine, dispositivi del dubbio che scardinano pericolose certezze, mettendo in discussione fatti storici e pratiche di documentazione di eventi di attualità con il dovuto distacco critico, con il fine di rileggere la storia dell’umanità, senza ipocrisia, oltre i luoghi comuni e le strutture mentali in cui l’etica, più che la bellezza, salverà il mondo che un domani si spera più giusto. 
Jacqueline Ceresoli 

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