02 luglio 2018

Scali in cerca d’autore

 
Ritratto del patrimonio che continua a trasformare Milano, in fotografia. Un momento prima degli interventi che cambieranno di nuovo la pianta e lo skyline della città

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Sette scali ferroviari milanesi dismessi in cerca di una riqualificazione possibile.
Farini, Greco, Lambrate, Porta Romana, Rogoredo, Porta Genova e San Cristoforo, dopo le radicali trasformazioni urbanistiche di Milano, per i fotografi Marco Introini e Francesco Radino, paesaggisti urbani, diventano il presupposto per preservare la memoria, l’identità di luoghi che seppure abbandonati rappresentano la storia dello sviluppo industriale della città. 
Insieme, questi scali, coprono una superficie di un milione e 25mila metri quadri, e nel tempo hanno modificato l’assetto urbanistico della città, agevolato scambi, trasporti, comunicazioni non solo di merci o prodotti di prima necessità intorno ai quartieri limitrofi, ma sono stati anche forieri di esperienze, suggestioni, desideri e di chissà quante storie, iconizzati in nuovi scenari dal fascino evidente, reinventati da artisti, fotografi e scrittori. 
Per la riqualificazione di queste aree c’è ora un Accordo di Programma, siglato tra Comune, Regione, FS Italiane e gli altri soggetti coinvolti, che ha ottenuto via libera dal consiglio comunale a giugno 2017, e rimettere mano agli scali, comunque vada, rappresenta una sfida per Milano e un esempio di cultura progettuale urbanistica per l’Europa, perché dopo il loro “rammendo”, la città di nuovo cambierà skyline. 
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Francesco Radino, Scalo Porta Romana, 2018 stampa su carta di cotone cm 67×100

Per riscoprirli o guardarli con una nuova sensibilità, si consiglia una visita alla Casa dell’Energia e dell’Ambiente (Piazza Po 3, fino al 28 dicembre), dove al primo piano, la Fondazione Aem (costituita nel 2007) ha ideato e promosso la mostra “Gli Scali ferroviari di Milano. Oggi, prima di domani”, a cura di Marco Introini, Francesco Radino e Fabrizio Trisoglio. Dagli anni Ottanta, gli edifici industriali e le aree periferiche esiti di archeologia industriale dismesse hanno coniato una nuova estetica, sviluppata da fotografi maestri del genere, come Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico e altri autori che hanno documentato i cambiamenti della città, includendo anche complessi progetti di modernizzazione delle aree urbane, dove si delineano cambiamenti all’orizzonte. 
I sette scali ferroviari abbandonati ancora in cerca di un riuso e fotografati prima delle loro future trasformazioni con il reportage sui generis di Introini e Radino, fuori e dentro queste vaste aree, diventano un linguaggio iconografico suggestivo che aprono riflessioni sul ruolo della loro memoria senza retorica. Marco Introini (1968) ha ritratto l’esterno degli scali, immortalato le architetture maestose in bianco e nero per cogliere intersezioni tra la città otto-novecentesca e la Milano del terzo millennio, mentre Francesco Radino (1947), si è concentrato sull’interno degli scali, con uno sguardo poetico sul rapporto tra aree costruite e natura che, se abbandonate nel tempo, la vegetazione spontanea, lentamente si riappropria di tutto ciò che l’uomo – nel processo di industrializzazione della città -, le ha sottratto. Introini, nella serie di fotografie intitolata Spazio Sospeso, iconizza uffici, magazzini e altre architetture metafisiche, fuori dal tempo, osservate intorno alle ferrovie, e valorizza linee prospettiche tracciate dai binari. I suoi dettagli di volumi geometrici degli edifici modernisti ci appaiono quasi ciclopici, poiché danno forma al tempo e conservano la memoria di chi lì dentro ha lavorato, vissuto e forse sognato trasformazioni dei modi di vivere la città, archeologie di un tessuto urbano complesso dall’operosità passata. 
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Marco Introini, Scalo Farini via Valtellina 2018_stampa fine art a pigmenti cm 75×100

Francesco Radino, nella serie intitolata Palingenesi punta sull’interno, per cogliere l’aspetto più intimo, misterioso, poetico di queste immense aree attraversate dai binari morti, arterie della modernità, indicatori di una energia sottesa nel cuore pulsante del progresso, intersezioni tra spazi vuoti e pieni, intrecci di forme verticali e orizzontali: vedute a lungo raggio suggerite da foreste di pali dell’energia e tralicci dei cavi elettrici che dialogano con la natura, in cui la vegetazione spontanea e gli alberi prendono il sopravvento con scenari irrorati di luce diafana e trasparente. Radino enfatizza contrasti tonali tra il grigio del ferro, delle cisterne e la luminosità di gradazioni di verde, luci e ombre stagionali, si avventura con lo sguardo lungo le rotaie, cogliendo l’anima di spazi non vuoti perché trasudano di segni, testimonianze della nostra civiltà industriale. Nelle sue vedute “impressioniste” degli scali fotografati in diverse ore del giorno, passando da cieli grigi d’inverno a quelli più luminosi della primavera e assolati dell’estate, si coglie metaforicamente il concetto di vita, di rinnovamento insito nella luce e la valorizzazione degli aspetti naturali dei luoghi urbani soggetti a costanti trasformazioni, in cui il verde si erge a vessillo di speranza di una città –giardino da vivere, dove l’uomo recupera il rapporto con la natura e i suoi simili. 
Jacqueline Ceresoli

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