23 ottobre 2018

“Italie” al cinema

 
Narrazioni impeccabili e “lasagne narrative”: qual è la differenza tra i gusti degli italiani e quelli del pubblico internazionale, in sala? Cerchiamo di capirlo. E farne tesoro

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Due film. Due Italie che il mondo guarda e apprezza in modo molto diverso. Due pellicole che raccontano come una cartina di tornasole la situazione attuale del cinema italiano, troppo spesso prigioniero di logiche modeste e provinciali, impegnato a puntare su attori che non hanno nessuna notorietà all’estero, mentre nel nostro Paese garantiscono livelli di incasso soddisfacenti, grazie ad un pubblico che va al cinema poco e solo “per distrarsi e farsi quattro risate”. 
Non sto parlando di commedie all’italiana, ma di due opere d’autore: Sulla mia pelle di Alberto Cremonini e Una storia senza nome di Roberto Andò. Due realtà entrambe italiane ma di segno opposto, che all’estero sono state valutate in maniera obiettiva. Partiamo dal primo, dedicato agli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, la cui storia ha infiammato gli animi nel 2009, quando il ragazzo muore in carcere dopo essere stato picchiato a sangue dalle forze dell’ordine: è il 148esimo morto di un’annata che costerà la vita a 176 detenuti. Su questa vicenda di cronaca, non ancora del tutto chiarita, Cremonini costruisce un capolavoro, che ricorda film come Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri o Il caso Mattei di Francesco Rosi. Scarno, essenziale, privo di barocchismi e patetismi, il film si avvale dell’interpretazione magistrale di Alessandro Borghi, che esprime, col suo corpo straziato, una resilienza definitiva (è dimagrito di 18 chili in 3 mesi per entrare nel ruolo), coadiuvato da una Jasmine Trinca discreta e credibile nel ruolo di Ilaria Cucchi. Bravo e dignitoso Max Tortora nel ruolo del padre di Stefano, Giovanni, e altrettanto valida Milvia Marigliano, che interpreta la madre Rita. Un applauso meritatissimo al direttore della fotografia Matteo Cocco, che ha scelto una stringatissima scelta di toni, quasi caravaggeschi. 
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Una storia senza nome di Roberto Andò
Film notevole non solo per noi italiani, ma anche per i critici stranieri, che hanno usato parole non consuete per una pellicola tricolore: “uno spaccato scioccante e memorabile della brutalità della polizia” ha scritto per Hollywood Reporter Deborah Young, unita ad altri critici internazionali, che hanno accolto il film a Venezia (dove ha aperto la sezione Orizzonti) in maniera molto incoraggiante. 
Sorte opposta ha avuto invece Una storia senza nome di Roberto Andò, un pasticcio nazional-popolare che mescola storia dell’arte e mafia, cronaca e finzione. Un cast di interpreti di nome ma non in grado di rendere credibile una trama che definire confusa è un eufemismo, che parte dal furto della Natività, un capolavoro di Caravaggio rubato nel 1969 a Palermo, per avviare mille narrazioni senza concluderne neanche una. Come ha scritto Boyd Van Hoeji su Hollywood Reporter, “Il regista sembra talmente innamorato dell’idea di raccontare diverse storie una sull’altra, come una sorta di “lasagna narrativa”, che alla fine non è chiaro quale sia il reale messaggio del film. Questa pellicola, presentata fuori concorso a Venezia, non uscirà fuori dai confini italiani tranne che per qualche festival dedicato al cinema italiano”. Un interessante confronto tra un’essenzialità sobria ma densa di contenuti e un eccesso di narrazione che non riesce però a centrare l’obiettivo e si perde in rivoli di storie che rendono nebbioso e poco chiaro il senso dell’opera. Occorre rifletterci per capire la differenza tra i gusti degli italiani e quelli del pubblico internazionale. E farne tesoro.
Ludovico Pratesi 

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