08 gennaio 2019

La polvere dell’“Atteso”

 
Immergersi nel paesaggio distopico di Mike Nelson alle OGR di Torino, per sentire lo scorrere il tempo che trasforma la vita e le mancanze. Fino a febbraio

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A Torino, dopo l’art week, suscita ancora grande interesse l’opera del cantore di un mondo “post-urbano”: Mike Nelson. Artista britannico candidato due volte al Turner Prize e chiamato a rappresentare la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia del 2011, espone il suo ultimo progetto L’Atteso, a cura di Samuele Piazza e ospitato negli spazi del primo binario delle OGR – Officine Grandi Riparazioni, fino all’3 febbraio 2019. 
La prima traccia visiva che lascia Nelson sul suo cammino appare flebile e minuta è Untitled (intimate sculpture for a public space), un’opera composta da una teca in plexiglass contenente un sacco a pelo e trasformata grazie a una fessura in una scatola per donazioni; un omaggio all’amico scomparso Erlend Williamson, artista e scalatore. Questo segno collocato nel foyer è l’anticamera straniante che anticipa un’installazione ambientale in larga scala che innesta un corto circuito nel paesaggio avvalendosi della trasformazione dello spazio preesistente in un luogo dell’assenza. Al di là della parete vetrata troviamo un’enorme struttura in legno che rievoca lo schermo di un drive-in, varco fisico e temporale del disfacimento dell’ex cubatura industriale: 180 tonnellate di detriti disseminati in superficie, 14 auto e 6 moto, uno scenario stravolto in cui il fruitore viene invitato a inoltrarsi senza indicazioni ma sviluppando una serie d’interrogativi sulla rovinosa parabola del tempo presente. 
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Mike Nelson, L’Atteso, 2018 Installation view at OGR – Officine Grandi Riparazioni, Turin. Courtesy the artist. Photo: Andrea Rossetti ph. for OGR
Ispirato a un aforisma di H.P. Lovecraft tratto da La Strada del 1920, L’Atteso è una distesa terrosa di macerie che ha in serbo la potenza espressiva e la vertigine di una realtà fantastica, di un “altrove” che trasmette l’affievolirsi della sua energia generatrice rievocando gli scenari fantascientifici descritti da Lovecraft. Nelson prende da H.P. Lovecraft la scrittura sublime e ne fa una trasposizione spaziale, quell’attraversamento di un sogno o forse un incubo che è il riflesso letterario capace di coniugare lo spirito tardo romantico al delirio del progresso e della modernità. Tuttavia quello che rimane è la sconfitta del reale. Una delle sensazioni che traspare alla vista del paesaggio è lo smarrimento che riporta la condizione umana più vicina a uno stato di sconvolgimento che alla lucidità. Uno “spaziare ulteriormente” in un contesto quale quello di una cattedrale industriale adatta a una narrativa contemporanea che si nutre della cultura dello scarto e del frammento. Non è la prima volta che Nelson stravolge gli spazi ospitanti delle sue installazioni, ma questa volta sembra innescare una riflessione su una realtà letteralmente sradicata da una linea irregolare e barbarica che ha investito la tranquillità di una precedente realtà ideale. 
Migliaia di cocci di piastrelle, detriti e materiali di risulta sono stati trasportati rendendo il luogo inospitale: tutte le vetture sono state colpite da uno smottamento improvviso e restano lì a fari accesi; tutte investite da una sorta di calamità naturale, evacuate repentinamente lasciando in alcuni casi anche i portelloni posteriori aperti. Gli interni dei vecchi furgoni conservano tappeti e indumenti, giacigli temporanei dove la fragilità viene spazzata via dalla catastrofe uniformandosi a un’estetica dell’abbandono. Una pratica che viene da lontano, che porta all’estreme conseguenze le prime azioni dadaiste nello spazio, il linguaggio informale del crollo della materia sulla superficie pittorica e le pratiche della Land Art, basti pensare all’iconica Asphalt Rundown (1969) di Robert Smithson o alla Earth Room (1977) di Walter De Maria. 
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Mike Nelson, L’Atteso, 2018 Installation view at OGR – Officine Grandi Riparazioni, Turin. Courtesy the artist. Photo: Andrea Rossetti ph. for OGR

L’installazione ambientale porta con se il carico di una metafora universale, che è figlia dell’esistenzialismo di Martin Heidegger e che rileviamo in particolar modo nelle valutazioni estetiche sull’architettura di Jacques Derrida. “Ogni architettura ha in se il segno del suo disfacimento” – sosteneva il teorico francese – e questo spazio progettato dall’uomo in cui prima scorreva la vita, ora è abitato da quintali di polvere che ammanta i veicoli di una società del controllo in cui nulla è più controllabile. Così il fruitore spinto in una rappresentazione distopica del crollo del vero, si presta a una lettura complessa di significati, laddove lo spazio subisce una degenerazione e l’urbanizzazione una rovinosa disfatta. Nelson esamina il concetto di transitorietà e travalica la linea desolante ed effimera della realtà materiale, passando dal disagio all’incredulità, dal racconto allo spazio, dalla devastazione che sommerge le forze antropiche al filo che conduce alle esperienze precedenti, innescando una riflessione sullo scorrere del tempo e sulla trasformazione della vita. 
Rino Terracciano
 

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