28 agosto 2017

READING ROOM

 
Chi tira le fila del potere nell'arte? L'industria culturale e i "pubblici". Note a margine di “Artecrazia” di Marco Scotini
di Serena Carbone

di

“Artecrazia” di Marco Scotini è un libro di cui parlare, su cui riflettere, da leggere e rileggere. 
Ci fu un tempo in cui il Basileus (il Monarca) sostituì il Kaisar nell’Impero Romano d’Oriente e si iniziarono a diffondere voci sempre più insistenti sulla sua ieraticità: quanto più la sua sacralità diveniva oggetto di panegirici e comportamenti devozionali, tanto più la sua figura diveniva temibile e il volto invisibile. Centellinava le apparizioni, e le poche volte che si mostrava al pubblico lo faceva al riparo dagli sguardi altrui, restando sempre coperto. Nel mentre, cadevano gli dei e si erigeva il culto di un solo dio. Scendendo i gradini del passato e salendo per quelli di Hollywood eccoci lungo la strada di mattoni gialli che conducono fino ad Oz. 
Che cos’è il potere? Come lo si esercita? Non è certo una novità che esso possa assumere il volto e il corpo del burattinaio che tira le fila dei suoi burattini. Esso è impalpabile, subdolo, onnipresente, sinuoso e insinuante, e per quanto lo si voglia sottrarre ad un dio minore per metterlo nelle mani di una giustizia divina, esso piomba sempre giù, in terra, gestito da uomini per gli uomini. E l’arte,  mezzo di creazione per eccellenza, si può forse dire immune dalla sua presenza? 
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Marcel Broodthaers – Un jardin d hiver – 1974 – VG Bild Kunst – Bonn 2004 – Foto CourtesyGalerie Hauser e Wirth – Zurich London
Un tempo erano il Papa, l’Imperatore, i Signori, i Principi a commissionare e poi collezionare opere su opere per consegnare la loro storia ai posteri, ma da almeno due secoli le cose non vanno più così. Ma questo il grande pubblico o i pubblici – come li chiama Scotini – sembrano ignorarlo o comunque metterlo in secondo piano rispetto alla visione del mondo sfolgorante che si profila una volta varcata la soglia dei grandi musei, delle magnificenti esposizioni, delle molteplici Biennali. Ed allora, in questo caso, chi è il burattinaio? Chi tira le fila della macchina espositiva? La risposta è solo una: l’industria culturale. Ed è dunque possibile darle un volto? L’industria culturale all’interno delle dinamiche del capitalismo cognitivo, in verità, si basa essenzialmente sull’ “Inclusione dei pubblici nel processo di lavoro con supplementi di nuove modalità di management culturale”, scrive Scotini, che detto in altre parole significa usare il capitale immateriale per generare profitto dal lavoro creativo, quel lavoro che nella realtà è precario, spesso sottopagato, e più spesso ancora totalmente gratuito. A rigor di logica, il volto dell’industria culturale è il mio che scrivo, il tuo che leggi. Ma questa accezione inclusiva ci rende detentori di un qualche potere? È in questo scarto tra le possibilità partecipative e l’effettivo funzionamento dell’apparato espositivo che prende forma la maschera che regola il teatro dell’arte. 
Scotini, oggi direttore del Dipartimento di Arti Visive e Studi Curatoriali di NABA-Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea, ormai da tempo, anche e soprattutto attraverso l’attività curatoriale, indaga i rapporti che intercorrono tra arte, economia e società. E questo libro è la summa di una serie di riflessioni – sotto forma di saggi e interviste – maturate in diversi anni di attività militante. 
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11 Istanbul Biennial
Richiamandosi più volte a Benjamin, Agamben, Rancière, Virno, Lazzarato, l’autore traccia in maniera lucida e puntuale quale sia il ruolo dell’arte all’interno del sistema di produzione post-fordista. In un’era in cui è sempre più difficile distinguere lo spazio di produzione da quello di consumo, e soprattutto il tempo del lavoro dal tempo libero, l’arte è e rimane produttrice di immagini e di immaginari. E in un mondo governato dall’immagine, che peso può avere questo? Altissimo. 
L’arte è politica non solo perché entra nell’ingranaggio produttivo e produce profitti (attraverso mostre e Biennali in particolar modo), ma anche perché produttrice a sua volta di capitale immateriale. E chi gestisce questo capitale immateriale? Non sicuramente io che scrivo o tu che leggi, per lo meno in termini di profitto. 
Il libro si struttura su due piani, l’uno propriamente teorico e l’altro che arriva dritto al cuore alla prassi. Dal caso Manifesta al proliferare del fenomeno Biennale (vista in termini di impresa post-fordista), dalle pratiche di singoli artisti, come Peter Friedl, Andrea Fraser, Marcel Broodthaers, Franco Vaccari, Dan Graham a casi espositivi specifici come l’XI Biennale di Istanbul, fino alle parole di Harold Szeemann e Paolo Virno, l’esperienza di Isola Art Center a Milano finita con lo sgombero, Guy Debord e il cinema situazionista, Alberto Grifi e il non-docufilm su Parco Lambro.
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Guy Debord – Critique de la Séparation – 1961 – video 35mm – 17’23”
Scotini mette a nudo la politica culturale, e incita al superamento della vecchia critica istituzionale “In favore di un punto di vista socio-lavorista in grado di ricondurre l’arte al livello di ogni altro lavoro della macchina sociale produttiva dentro un’economia di tipo cognitivo come è l’attuale”. Non si tratta di indagare separando le due sfere – realtà ed immagine – ma piuttosto di comprendere in quale punto si incontrano per coprodurre una terza via che è quella odierna. La questione, dunque, non è da porsi in termini desueti di riappropriazione dei mezzi di produzione, quanto di affrontare il problema a partire dalle modalità di rappresentazione, di costruzione delle nostre soggettività che passano inevitabilmente da un condizionamento del capitale immateriale da noi prodotto ma non da noi gestito. Ma che fare? Il primo gradino che suggerisce la lettura del libro passa dalle parole consapevolezza, conoscenza, curiosità; il secondo da una liberazione dello sguardo dai regimi visivi messi in atto dalla cultura espositiva moderna: questa la sfida dell’arte oggi. Il tempo del confort è finito. Di fronte alla rassegnazione tutta perbenista e italica di uno status quo, Scotini stimola alla riflessione, all’uscire fuori dal guscio protettivo dell’assimilazione coatta, per innescare pratiche decostituenti ma anche e soprattutto costituenti, attraverso una disobbedienza che non si oppone al potere, ma si afferma come forza di creazione e sperimentazione di linguaggi, dispositivi, istituzioni e soggettività.
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Serena Carbone
Marco Scotini, 
Artecrazia
DeriveApprodi
Roma 2016 
€  20

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