13 febbraio 2012

Dietro le quinte di una fiera straniera

 
Tre giorni di Art Rotterdam, che si sono conclusi ieri, danno lo spunto per riflettere sul sistema fiera. La partecipazione delle gallerie italiane, il perché non propongono i nostri artisti, i criteri di selezione, all'estero come in Italia. Elementi che vanno ridiscussi per cambiare le regole del mercato. Poi qualche nota curiosa a margine delle transazioni. Perché siamo pur sempre in Olanda, Paese che si è inventato il commercio

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Fiere piccole, stessi problemi. Ma di Art Rotterdam che si è chiusa domenica scorsa vale la pena raccontare un paio di cose.

75 le gallerie promosse ad esporre al Terminal Cruise, affacciato sul fiume Maas, con a destra il sofisticato spettacolo del ponte Erasmus e a sinistra lo specchio del porto, secondo al mondo per traffico merci solo a quello di New York. Fuori, un gelo raro, che neanche un sole deciso è riuscito a scaldare e dentro un bel via vai di gente. Eppure non si vende, anche se i prezzi delle opere sono bassi, attestandosi su una media di 2-3mila euro, a parte l’eccezione di un Thomas Struth portato in fiera da una delle più prestigiose gallerie di Amsterdam, Paul Andriesse, tanto per confermare che, se serve, ha assi nella manica da calare.

Quasi la metà delle gallerie sono straniere, proveniendo per lo più dal Belgio, molte da Bruxelles ma anche da Gent, fatto che consente a Fons Hof, direttore di Art Rotterdam, di dire che «molti collezionisti belgi vengono qui a comprare». L’area, in effetti, quanto a mercato dell’arte antica gode di buona salute, come ha dimostrato l’ultima edizione di Brafa, ma sul contemporaneo fatica come ovunque. Oltre alle gallerie belghe, ce ne sono diverse targate Germania, cinque dalla Gran Bretagna, qualcuna danese e due sole italiane: Furini di Roma e Thomas Brambilla di Milano.

Furini sta nello spazio dedicato alle giovani gallerie: New Art Section, guardato con discreta attenzione. «C’è parecchio interesse, la gente chiede, soprattutto i collezionisti belgi che sono preparati e molto aperti alla sperimentazione. Abbiamo scelto di fare questa fiera e non una italiana per allargare il nostro giro, ma poi abbiamo venduto a collezionisti belgi che già avevamo». Francesca e Nicola Furini hanno presentato il progetto dell’artista brasiliano che vive a Madrid Marlon de Azambuja. «E’ la richiesta della fiera per le gallerie giovani: un solo artista». Va bene, ma perché straniero? Non è la solita storia italiana che anche quando andiamo all’estero, come quando stiamo a casa nostra, non proponiamo mai artisti italiani? «Con gli italiani non ti prendono», risponde Nicola Furini. Sarebbe? «Il messaggio non è esplicito, ma molto comprensibile. L’application è difficile, fanno un sacco di problemi. Poi devi avere delle credenziali rispetto all’artista che presenti, se per esempio lavora con altre gallerie straniere. Questo di un giovane italiano non lo puoi garantire. I nostri artisti conosciuti sono più o meno sempre gli stessi, quelli su cui battono le riviste, che sono riusciti ad entrare nei musei. Ma una giovane galleria non ha accesso a loro. Quindi ripiega sull’artista straniero, che in Italia ancora non si conosce e che dà più chance all’estero per fiere e quant’altro».

Bella storia! Tutta a svantaggio della nostra giovane arte la quale, anche se di qualità, difficilmente sbarca all’estero. Le giovani gallerie italiane la presentano nelle fiere italiane: così farà Francesca Minini al Miart con Giulio Frigo, così hanno fatto a Bologna The Gallery Apart, che ha portato Alice Schivardi e Mariana Ferratto, Federica Schiavo (Gabriele Porta, oltre che il più affermato Andrea Sala e Salvatore Arancio che vive a Londra), Sara Zanin (Beatrice Pediconi), Spazio A (Chiara Camoni), La Veronica (Giovanni De Lazzari). Così fa anche Paola Capata di Monitor ad Artissima, dove negli ultimi anni ha portato Nico Vascellari e Francesco Arena. Ma fuori dall’Italia è difficile uscire.

E poi, visto che ci siamo, parliamo di Artissima. Non si svelano retroscena da brivido, dicendo che sono molte le gallerie giovani che provano ad entrare, soprattutto perché i collezionisti insistono perché vadano a Torino, a una fiera che fa “medagliere”. Ma la selezione è dura e non sempre comprensibile. Perché poi si trova qualche galleria con progetti un po’ discutibili, come del resto anche qui a Rotterdam. «Noi, per entrare, dobbiamo passare sotto le forche caudine e so di alcuni miei colleghi italiani che non sono stati ammessi. Però poi ti giri e vedi della pittura qualunque», conferma Nicola Furini.

Vero. Ti giri e vedi non robaccia, ma roba qualunque. Probabilmente contiamo poco come Paese e contiamo poco anche nelle fiere. Ma forse bisogna anche affrontare la composizione delle commissioni che giudicano le candidature. E’ giusto che vi siano altri galleristi a scegliere chi sì e chi no? Non sarebbe meglio che a selezionare fossero i curatori, ingaggiati anche per progetti specifici, lasciando invece la direzione a chi è in grado di ripensare la fiera come occasione commerciale (che è quello che ne fa la forza) e non solo vetrina curatoriale?

Molte cose vanno riviste anche nel mercato e nei segmenti che ne disegnano lo scheletro, primo fra tutti le fiere, essendo le aste una realtà che ormai viaggia a svariati metri da terra rispetto a quello che è l’arte. Ma sulle fiere, prima che implodano portandosi dietro il mercato e il sistema dell’arte, si può fare qualcosa.

L’altra cosa da raccontare su Art Rotterdam, un aneddoto curioso, oltre all’idea decisamente eccentrica di far alloggiare (solo su richiesta) alcuni ospiti della fiera e visitatori qualunque negli studi degli artisti trasformati per l’occasione in bed & breakfast. Giro e a un certo punto mi imbatto in una foto decisamente buona. Guarda caso è di Richard Hamilton. Guardo il prezzo: 4.800 euro. Riguardo per capire se ho visto bene e quei 4.800 euro stanno sempre scritti lì. Mi giro intorno e trovo un piccolo Andy Warhol a 5mila euro. A quel punto chiedo al gallerista, Kunsthandel Mejer di Utrecht: «L’ho comprati bene a un’asta e li rivendo a poco qui perché in Olanda Hamilton non è molto conosciuto. Warhol invece viene da un grande pezzo che è stato smembrato e io ho preso questa piccola cosa». Sarà pure poco conosciuto Hamilton, ma si tratta comunque di quotazioni internazionali, replico io. «Sì, ma a me interessa vendere. Ora il mercato è in crisi e queste cifre mi vanno bene», risponde il gallerista, mente mi fa vedere le autentiche. «Se non ci crede, la porto da un mio collega, Willem Baars Art Consultancy di Amsterdam, che ha un paio di Donald Judd a prezzi molto bassi». Ed eccoli qui una serie di sei collage, ovviamente venduti, a 9mila euro. Un pezzo solo a 5.200 ancora senza il bollino rosso. «Come mai? Non è tempo di pensare a grandi profitti. Ma a fare un po’ di soldi». Che il mercato rischi di scardinarsi ai galleristi olandesi evidentemente importa poco. L’importante è vendere, non partecipare. (A.P.)

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