24 febbraio 2012

JUSARTIS Autenticità delle opere d’arte: meglio tacere?

 
Sempre più spesso gli esperti d’arte vengono citati in giudizio per le opinioni espresse. Quali gli strumenti a difesa?

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Non sono rari gli attacchi giudiziari ai critici d’arte per le opinioni espresse in merito all’autenticità delle opere. Negli Stati Uniti, il “Warhol Authentication Board” ha addirittura deciso di chiudere i battenti,”I don’t want to spend $7 million a year on lawyers”: così ha affermato Joel Wachs, presidente della fondazione.

Negli USA sono frequenti, difatti, i processi in cui il critico viene citato per aver reso affermazioni tali da provocare un crollo del prezzo di mercato dell’opera (c.d. disparagement of quality). Il primo caso data 1920: un esperto d’arte di New York rese un parere in merito ad un’opera attribuita a Leonardo da Vinci, “La Belle Ferronière”, ritenendola una copia, provocando così il crollo del suo prezzo.  L’esperto venne citato in giudizio e dovette conciliare pagando la somma di sessantamila dollari. Ironia della sorte: quando il dipinto riapparve sul mercato nel 1985, venne ritenuto una copia. In altri casi le accuse sono state di frode (per aver reso intenzionalmente un’affermazione falsa) o di negligenza (per non aver adoperato la diligenza dovuta nello svolgimento dell’incarico). Numerosi casi hanno riguardato, poi, ipotesi di diffamazione per lesione alla reputazione del soggetto leso. Nel caso “Seltzer v. Morton” (2007), il proprietario dell’opera, Morton, citava in giudizio Seltzer, il quale aveva negato pubblicamente l’autenticità dell’opera. Morton affermava di essere stato diffamato da Seltzer, il quale pubblicando notizie false, aveva leso la sua reputazione di mercante, con l’intento di impedirgli la vendita dell’opera al corretto prezzo di mercato.  Un panel di dieci esperti, durante il processo, negava l’autenticità dell’opera.  Seltzer riuscì a riaffermare la propria reputazione di critico e studioso solo facendo lui stesso causa al proprietario dell’opera ed al suo avvocato per abuso processuale, ottenendo un risarcimento di oltre novemilioni di dollari.  Di diffamazione si trattava anche nel caso “Mount v. Sadik” (1978), tra due critici d’arte rivali: Mount aveva ritenuto l’opera attribuibile a Gilbert Stuart; Sadik, richiesto del medesimo parere, aveva invece negato pubblicamente, sulla rivista “Artnews”, l’attribuibilità dell’opera a tale autore. Mount citò allora in giudizio sia Sadik che la rivista “Artnews” (così come l’editore ed il reporter).

La Corte respingeva le accuse e notava che la legge relativa alla diffamazione “non e’ mai andata così lontano da prevedere che, una volta che un esperto abbia espresso un’opinione, gli altri debbano essere costretti a mantenere il silenzio, con il rischio altrimenti di subire un’azione legale”. Non sono mancati, poi, in America, casi in cui é stata coinvolta anche la legge antitrust Americana, per esempio nel caso “Simon-Whelan v. The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.” (2009) oppure nel caso “Kramer v. The Pollock-Krasner Foundation” (1995). Poiché i Board continuavano a negare l’autenticità delle opere al loro esame, l’accusa era quella  di cercare di monopolizzare il mercato, violando la libera concorrenza.

Come si evince dai pochi casi citati, il rischio di attacchi giudiziari é molto elevato.

Non sono pochi, allora, coloro che si sono rivolti alle compagnie assicurative. Altri hanno cercato tutela mediante clausole contrattuali specifiche inserite nei contratti di affidamento dell’incarico. Nel caso “Lariviere v. Thaw” (2000), il proprietario di un’opera acquistata credendola di Jackson Pollock, richiedeva un parere al “Pollock-Krasner Authentication Board”. Il Board rispondeva che l’opera non era di Pollock. Il proprietario citava in giudizio il Board e tutti i suoi membri, ma veniva addirittura condannato a pagare una sanzione, ed idem il suo avvocato, per aver intentato la causa. Il proprietario, affidando l’incarico al Board, aveva infatti firmato la clausola seguente: “tiene indenne il Board ed ogni suo membro da ogni responsabilità nei confronti del proprietario o di terzi derivante dall’aver reso il parere o dal rifiuto di renderlo”.

Anche in Italia l’esperto può correre il rischio di essere citato per diffamazione. Nel 2004, ad esempio, il Tribunale di Milano ha affermato: “chi abbia ricevuto l’incarico di catalogazione della produzione pittorica di un autore pone in essere un comportamento diffamatorio e risponde del danno qualora pubblicamente dichiari di non riconoscere expertise di autenticità di terzi, con ciò ingenerando il sospetto di falsità delle opere da lui non catalogate ed autenticate”. Più di recente (nel 2011) il Tribunale di Milano, uniformandosi ad un insegnamento della Suprema Corte (Cass. n. 7798/2010), ha precisato, tuttavia, che l’attività del critico d’arte é costituzionalmente tutelata quale esercizio del diritto di critica (artt. 9 e 21 Cost.). Essa può essere però diffamante ove trasmodi in attacchi ingiustificati alla persona. Un’opinione, pertanto, che sia veritiera, pertinente, ossia relativa ad un fatto di interesse collettivo e che rispetti i limiti della corretta forma verbale, non può essere ritenuta diffamatoria.

 
elisa vittone
 
 
l’avvocato elisa vittone è specializzata nell’area della proprietà industriale ed intellettuale; presidente dell’associazione culturale Interalia; nel 2010 membro dell’IPSoc di Londra.

 

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 77. Te l’eri perso? Abbonati!

 

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