23 settembre 2012

Start, Milano! Ma si riparte davvero?

 
Dieci giorni di aperture prolungate, inaugurazioni ed eventi. Questo ci si aspettava dalla settima edizione di StartMilano. Ma è andata veramente così? No, perché mentre continua a funzionare l'offerta molteplice delle gallerie, quello che sembra venire meno è una sorta di fil rouge, l'identità che l'arte riveste per la città. Che è apparsa meno interessata, dispersa. In attesa di un vero coinvolgimento [di Matteo Bergamini]

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È un ottimo modo per ricominciare la stagione. Ed è anche un ottimo modo per testare la temperatura del contemporaneo a Milano, città che dovrebbe rappresentare, senza se e senza ma, la punta di diamante dell’art-world italiano, quantomeno per quantità di offerta.
Eppure c’è qualcosa di sospeso in questa ultima edizione di StartMilano che, nonostante la lodevole scommessa di spalmare tutti gli eventi nell’arco di dieci giorni (chiusura oggi con l’apertura straordinaria delle gallerie dalle 12 alle 21), sembra piuttosto fiacco. Nonostante i comunicati e le parole spese, anche dal presidente Pasquale Leccese, che ha sottolineato i buoni numeri e le gallerie piene già nel primo week end dell’iniziativa. 
Eppure giovedì sera, negli spazi di Porta Venezia e di Ventura-Lambrate, i più densi di aperture, l’aria che si respirava era piuttosto normale. Nessuna effervescenza da Salone del Mobile, nessuna mobilitazione di massa. Già, perché anche le vie Giovanni Ventura e Massimiano, strade normalmente abbandonate che pullulano nei giorni degli opening, alle 20 non erano poi così affollate. Si sono conosciuti, e visti, vernissage migliori, se non altro in fatto di affluenza.

È stata la settima edizione di StartMilano, ma l’energia non è sembrata quella di una bambina ribelle, piuttosto quella di una settantenne un po’ arzilla. Come mai? Il comune ha dato il patrocinio, l’info point alla Galleria d’Arte Moderna ha funzionato, gli addetti ai lavori sono stati informati, ma il pubblico era scarso. È un po’ il solito, vecchio, refrain: a Milano l’arte esiste, vive e si mostra (poco) solo per un nucleo ristretto. Non è per tutti, e non riesce a smuovere quello che fa il design o la moda. La colpa si imputa sempre al denaro mancante, ma se fosse anche a causa di una mancata collaborazione tra le parti? Di una mancata pubblicità adeguata, dell’assenza di un “grande evento” che catalizzi il tutto? 
Il grande evento in realtà c’è stato, Picasso a Palazzo Reale, ma completamente scollegato dalle attività delle gallerie private. E probabilmente la maggior parte di chi visiterà la mostra del genio spagnolo non avrà mai sentito parlare di via Ventura, se non come di una strada al di là della ferrovia, dalle parti di Lambrate. Poi a Palazzo Reale è ancora in scena Fabio Mauri, di cui non si può certo dire che non sia contemporaneo, e oggi si chiude “Close to me” di Susan Philipsz. Però, parliamoci chiaro, il pubblico delle gallerie è quello dei soliti volti, più o meno noti. Contrariamente a quello che forse accadeva negli scorsi anni StartMilano, in questa versione, nonostante i giorni principali per gli opening siano stati giovedì 13 e 20, è sembrato un universo frammentato di tante piccole stelle non troppo lucenti, se si escludono Lia Rumma e Massimo De Carlo, che ovviamente hanno voluto brillare da sole, la prima aprendo le porte a un monumentale Kiefer sabato 15, il secondo con Pruitt mercoledì 19. 

Se proprio dobbiamo dirla tutta, mancavano anche le mostre più istituzionali, che volenti o no, a Start avrebbero dato una chance in più. Il Pac dov’è? Appena chiuso con Elad Lassry bisognerà aspettare novembre con Garutti; la Fondazione delle Stelline? Veramente basta una mostra di Attilio Forgioli? E la Triennale? Certo c’è la crisi, la crisi e ancora la crisi, ma perché renderla più evidente ancora? Forse stavolta a Start per ripartire sarebbero bastati proprio i classici tre giorni, con i quali è nato, concentrando tutto ed evitando dispersioni. 
Eppure, l’offerta anche stavolta è stata buona e particolarmente eterogenea; si va da un percorso tra le opere di Giuseppe Maraniello, da Lorenzelli in Porta Venezia, al bellissimo spazio “vuoto” di via Tadino 20, occupato dalla galleria Zero…, che senza “foglietti illustrativi” di sorta mette in scena una personale di Michael E. Smith. Nato a Detroit nel 1977 e graduato a Yale, attualmente insegnante al College for Creative Studies, l’artista è divenuto famoso per le sue “sculture” legate ad un quotidiano rigettato, fuori uso, realizzate con materiali in genere tossici. Ma di Smith colpisce un vuoto pneumatico che aleggia nello spazio in maniera raggelante. Mi avvicino ad una sfera che potrebbe essere pure di amianto ammuffito, poi mi dirigo nel buio e magari nella penombra trovo una scultura nera a terra che potrebbe essere radioattiva. Ma non so nient’altro, posso solo affidarmi all’istinto. Resto affascinato, domando, guardo il cavolo cappuccio riportato sull’invito e i suoi buchi nelle foglie e mi chiedo se siano stati parassiti, piogge acide, lumache. Poi mi guardo intorno pensando che no, di certo “il pubblico” qui non ci viene, e se viene è per ammirare questo loft-magazzino grezzo. 

Chiediamoci ancora una volta, però, cosa si intende per pubblico, che cosa dovrebbe fare questo “pubblico” e quale contributo può dare al contemporaneo. Forse nessuno. Perché non vi è, nemmeno in queste occasioni, una scolarizzazione intorno alla materia: perché non si è fatta una conferenza stampa aperta alla cittadinanza per lanciare la manifestazione nella povera piazzetta di viale Vittorio Veneto, accanto allo spazio Oberdan? Perché non si è tracciato un “filo conduttore”? Per carità, mica stiamo pensando di dare i compiti alle gallerie, ma quantomeno di illustrare la situazione attuale dell’arte, con i suoi pregi e nefandezze. Perché non un momento di Arte Pubblica? Nessuno sentiva il bisogno di un Pistoletto che unisse il Terzo Cerchio al simbolo dell’infinito in piazza Duomo, eppure è stato l’unico momento della settimana provvisto di un potenziale incontro con il “pubblico”. Insomma Start, più che rilanciarsi, ha definito quella che è la sua identità: una serie di opening programmati nella stessa giornata. Lo si vuole davvero renderlo un “festival”, una settimana dell’arte a tutti gli effetti? Si trovi un direttore artistico allora, si coinvolgano altri attori del panorama cittadino, si aprano accademie ed istituti, si facciano dîner en blanche, si ampli l’orizzonte. Sennò ci terremo Start così com’è e amen. 
Ma veniamo alle liete novelle, o quasi. L’attenzione, giovedì sera, in Ventura-Lambrate sembrava particolarmente calamitata verso la Plusdesign, spazio per arredamenti d’autore sotto Fluxia, che tra starlette e arazzi da 25mila euro targati Peter Halley non è passato inosservato. Fluxia, invece, ha deciso di diventare davvero la copia di uno spazio di Chelsea, con la seconda personale nella galleria milanese di Alfred Boman, svedese classe 1981. 

Folla anche da Francesca Minini per “Màn” di Paolo Chiasera, dove la pittura diviene un ricettacolo di conoscenze, una modalità di “Appropriazionismo” che permette alla personale dell’artista bolognese l’entrata in scena, metaforica, di diversi attori. Un po’ come nella bellissima retrospettiva di Emilio Tadini alla Fondazione Marconi, sulla quale vale davvero la pena soffermarsi qualche minuto, più che in questa sede direttamente in galleria, al cospetto di grandi trittici e dei loro “antenati” singoli, realizzati dal 1985 al 1997, dove lo scrittore, critico e artista, architetta un teatro di figure nel quale prendono corpo citazioni agli Espressionisti tedeschi, al Surrealismo, al Cubismo e al dissolvimento di oggetti quotidiani e personali; libri, tubetti di pittura, pennelli. Un incontro anche con il tema del “profugo” e con la sua figura, alter ego di ogni artista, nella capacità di perdere tutto e raccogliere sempre il nuovo. Da Marconi per un attimo si torna anche alla Hauptbahnoff di Kassel, con Tristanoil di Nanni Balestrini, il video della durata di 2mila e 400 ore, proiettato ininterrottamente nei 100 giorni di dOCUMENTA (13) e che continua ora a Milano, per poi spostarsi in alcune altre città italiane, tra cui Roma, Venezia e Torino. 
Ci spostiamo anche noi, di qualche fermata di metropolitana, per approdare da Riccardo Crespi, che ci lascia un’altra bella mostra, dalle estetiche glaciali. Non un caso, visto che l’artista proposta è la lettone Kristine Alksne che, secondo la lettura che ne dà Gabi Scardi, realizza opere «come prototipi per monumenti (…) attraverso oggetti apparentemente esausti che sono stati invece sottratti allo scarto definitivo». Vecchi libri che prendono la forma di fiordi, isole, geometrie di cime montuose e ghiacciai, dove tutta la realtà visiva quotidianamente vissuta dalla Alksne è trasmutata in opere «lievi, cristalline ed antiretoriche per eccellenza».

Altra mostra assolutamente degna di nota è “Il Re dei Ratti” alla galleria Laura Bulian. Il solo show dell’artista kirghiso Marat Raiymkulov appartiene alle frange della denuncia sociale, attraverso però la metafora e la poetica. Ed è dimostrazione di come l’arte possa continuare a parlare di società, problematiche intorno alla libertà e all’appartenenza, senza avvilupparsi in asfissianti sermoni, video-interviste di durata interminabile, ma attraverso i materiali più antichi e contemporanei del visivo: disegni, azioni, talvolta animazioni brevissime e crude. Una mostra che mette a nudo le dinamiche delle famiglie patriarcali, le ideologie intorno alla produttività, l’inadeguatezza del linguaggio, il problema del lavoro. In uno spazio, quello della Bulian, bellissimo e forse purtroppo non così conosciuto, nemmeno nella stessa Milano. 
Chiudiamo questo giro, e questa edizione di StartMilano, tornando in via Ventura, dal colosso Massimo De Carlo e in un atelier temporaneo. MDC ci offre una serie di nuovi lavori di Rob Pruitt, artista irriverente e sconcertante, impossibile da catalogare con indifferenza: Pruitt propone per questa occasione, tra le altre opere, una serie di ritratti stilizzati su sfondi con colori gradienti; ricordano i tratti degli scarabocchi al telefono, ma a ben guardare denotano personalità che vengono tradite dai toni allucinati dello sfondo, come a rimarcare una componente caratteriale o un ricordo. Quasi un gioco da bambini, assolutamente nell’estetica del “questo lo potevo fare anche io”, che rende i Face Paintings ancora più diretti e spiazzanti. 

L’atelier temporaneo di Analogia Project, targato Andrea Mancuso e Emilia Serra, già esposti in passato da Enrico Fornello, è forse invece il progetto più effimero e poetico di tutto questo Start. Peccato che con Start però non c’entri proprio nulla. Nella vecchia officina di Lambrate, su fondo bianco, trova spazio una veduta interno-esterno di una stanza con affaccio su giardino. Dentro la figurazione sculture minime, realizzate con filo di nylon e lana nera, che allo sguardo appaiono come schizzi a carboncino su un foglio bianco. Un universo sospeso e duale, in rapporto continuo tra il chiaro e lo scuro, l’effimero e lo stabile, il maschile e il femminile. L’impatto è forte, l’impianto “cervellotico” debole. Eppure, durante questo Start, mi sono trovato spesso a pensare che avrei voluto “vedere qualcosa”, essere suggestionato, preoccuparmi ben poco della provenienza degli artisti o del loro essere mid-career. A volte è accaduto, molto più spesso no. Ma credo che forse, anche Milano, avrebbe bisogno che l’arte “accadesse” un po’ di più. 

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