05 novembre 2012

TEATRO Lo scenografo delle mostre

 
Dal Seicento a Eleonora Duse. Sempre più spesso Pier Luigi Pizzi, nome nobile del teatro, cura l'allestimento di grandi esposizioni. Presto lo vedremo in Italia e in Francia

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«Oui, pour moi, une exposition est un spectacle». Così Pier Luigi Pizzi ha recentemente dichiarato in un’intervista alla studiosa e giornalista francese Jeanne Morcellet, incontrata durante i lavori per l’allestimento, alla reggia di Versailles, a Parigi, della mostra “Versailles e l’antique” sulle collezioni di Luigi XIV, che sarà inaugurata il prossimo 12 novembre. Poco prima, a Roma, Pizzi firmerà l’allestimento dell’antologica dedicata a Carlo Saraceni, a Palazzo Venezia dal 30 ottobre. Oltre sessant’anni di attività come scenografo e costumista, poi anche regista, nel teatro di prosa (per venticinque anni con la leggendaria Compagnia dei Giovani) e d’opera, centinaia di spettacoli diventati storia, Pier Luigi Pizzi si dedica dalla fine degli anni Ottanta anche all’allestimento di mostre. Lo fa, come dice a Jeanne Morcellet, con l’occhio e la filosofia dell’uomo di spettacolo. Uno stile inconfondibile, come il suo teatro.

Maestro Pizzi, qual è la logica che segue quando cura l’allestimento di una mostra?

«Innanzitutto va premesso che non c’è una regola, ogni mostra ha la sua peculiarità e ci sono modi diversi di affrontare il problema dell’organizzazione dello spazio. Ciò che è importante è invece la filosofia che guida la mostra: per quello che mi riguarda rimane un rapporto diretto con il teatro. Allestire una mostra, per me, è come mettere in scena un’opera teatrale. C’è un tema, determinato dalla scelta delle opere, e un’idea guida: su questo si può costruire una drammaturgia in cui le opere d’arte sono personaggi che dialogano tra loro. È un lavoro diverso dalla museografia, perché il museo ha scopi didattici e non ha un tema, dunque il museo segue criteri cronologici. Una mostra invece racconta l’artista, il clima, le atmosfere: un mondo diverso che ha esigenze differenti».

Quali, tra le mostre che ha allestito in tutto il mondo, ricorda con più affetto?

«Partirei dalla prima, “Seicento”, nel 1989 a Parigi, sulla pittura italiana del XVII secolo nei musei francesi. Si trattava di far capire la pittura di Caravaggio, Reni, Guercino, ma anche Carracci, Giordano, Preti e molti altri. Bisognava far comprendere al pubblico le tendenze, chiarire gli aspetti di una pittura che tocca molti temi diversi. Non si trattava solo di appendere quadri, ma anche di spettacolarizzare un percorso, e dunque si rivolsero a me che a Parigi, in quegli anni, facevo molto teatro ed ero considerato uno specialista dell’opera barocca. Fu una mostra rivoluzionaria, che richiese una preparazione lunga tre anni. Successivamente ci fu la mostra “Les tables royales”: porcellane di Sèvres, ori e argenti tra Seicento e Ottocento. In Italia poi ho curato l’allestimento di tantissime mostre, con risultati particolari, e sì, anche molto imitati: “La magnificenza dei Medici” a Palazzo Pitti, l’Ottocento napoletano a Capodimonte, ma anche Eleonora Duse evocata attraverso i suoi oggetti e i suoi abiti alla Fondazione Cini, oppure Giuseppe Verdi per il centenario, a Palazzo Reale, facendo dialogare le prime edizioni delle sue opere con la pittura storica a cui si ispirò e la ricostruzione delle stanze dove visse, con i mobili originali. Identico lavoro a Pesaro, per Rossini».

Il suo atteggiamento nei confronti di questo lavoro sembra molto passionale.

«Da parte mia c’è una partecipazione totale, perché mi entusiasmo alle cose e agli oggetti dell’arte nel mio bisogno di inseguire la bellezza. La mia è una ricerca estetica, ma anche etica: tutto va pensato con cura e senza esibizionismi, avendo come scopo quello di far capire e apprezzare l’arte, lasciando alla fine altre immagini, oltre l’emozione».

Qual è il suo rapporto con l’arte contemporanea?

«È stata fonte di ispirazione per il mio lavoro, ma il mio apporto ad essa sarebbe superfluo. L’arte contemporanea non ha bisogno di particolari presentazioni e va vista per quello che è: l’opera deve catturare l’attenzione, indipendentemente da come è messa in scena. Comunque ho collezionato opere dei miei amici pittori, che ho conosciuto negli anni Sessanta e Settanta, quando avevo lo studio a Roma. Soprattutto opere figurative di Schifano, Vespignani, Tornabuoni, Mulas, Caruso, Guccione, tutti artisti frequentati e con cui avevo interessi comuni».

Il suo essere collezionista si rivolge invece soprattutto al Seicento?

«Non sono nato collezionista, lo sono diventato. E, col tempo, il mio essere uomo di teatro mi ha portato ad appassionarmi alle storie dei martiri, che rappresentano la solitudine e il dolore».

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 80. Te l’eri perso? Abbonati!

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