15 luglio 2014

L’estate o il corpo agonizzante della società civile

 
Gian Maria Tosatti continua a Napoli il suo scavo nelle “Sette Stagioni dello Spirito”. La seconda tappa ha per protagonista l’inerzia. Messa in scena in una location particolare: l’Anagrafe della città, la più antica d’Italia. Tra faldoni accumulati, note pubbliche e intime di un uomo qualunque, stanza dopo stanza, emerge il corpo dello Stato. Coperto di polvere, immobile, malato

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In una Napoli satura di umanità, in una accecante giornata di fine giugno entro sola nell’ex anagrafe comunale, fatiscente edificio seicentesco che svetta nella centralissima Piazza Dante e che, come scrive il curatore Eugenio Viola, è «talmente visibile da essere diventato invisibile».  
Nato nel ‘600 come monastero, l’edificio ha ospitato la prima anagrafe italiana, istituita a Napoli nel 1809 che ancora oggi, pur versando in una situazione di serio degrado, conserva al suo interno gran parte dei documenti vergati a mano che hanno registrato l’identità dei napoletani per oltre 200 anni.
Sul portone d’ingresso il numero 2 a caratteri gotici introduce lo spettatore in questa seconda tappa delle sette che Gian Maria Tosatti ha concepito per la città,  riferendosi agli scritti sull’anima e la sua ascesa in sette tappe della mistica Santa Teresa di Jesus. La prima tappa, inaugurata lo scorso 26 settembre nella Chiesa dei SS Cosma e Damiano a largo dei Banchi Nuovi dal titolo La Peste era il prologo, o meglio, il “limbo” dantesco degli ignavi, il non–luogo dove il poeta relega quelle anime cosi involute da non essere degne neanche dei gironi infernali veri e propri. 

Con questa seconda tappa, denominata Estate, entriamo nella prima delle stazioni che l’artista dedica all’Inferno. In un luogo come l’anagrafe, finalizzato alla catalogazione minuziosa dell’identità dei cittadini, si assiste con angoscia crescente, ad una tragica e progressiva perdita dell’identità, in una sorta di processo di omologazione che fa dell’umanità un deserto arido e privo di “elan vital” per dirla con Bergson, dove gli esseri viventi, pur distinguendo il bene dal male, non sono più in grado di arginare il male che avanza come un virus che tutto contamina.
È dunque l’inerzia la protagonista di questa seconda tragica ed affascinante tappa, che, stanza dopo stanza, corridoio dopo corridoio, ci mostra il corpo dello Stato, ovvero il corpo della società “civile” coperto di polvere, immobile, malato ed agonizzante. Dalla prima sala in cui questo corpo è presentato metaforicamente “aperto” e vivisezionato in un accumulo di faldoni, cartelle e fogli, che continuano ufficio dopo ufficio a coprire le squallide scrivanie ministeriali  ricostruendo l’esistenza di un privato cittadino V.D.P. nato a Napoli nel 1942, coniugato nel 1975, atti di nascita, atti di matrimonio, cambiali, i sogni, i desideri, l’infanzia, la scuola, la visita di leva, il lavoro, gli stipendi, tutto registrato, anche le paure, le malattie, gli esami, le lastre, che metaforicamente ci portano all’interno di quel corpo vivente che, da corpo privato, diventa rappresentazione simbolica del corpo sociale, pubblico, fino a farci vedere il cervello, gli organi. 

La malattia e la degenerazione fisica degli ultimi anni di una vita, apparentemente fatta di documenti redatti in bella scrittura, sembrano davvero comprimere la vita umana in una parentesi ristretta che si apre con la nascita e si chiude con la morte. 
L’estate è la stagione dello spirito dominata dall’inerzia, nella canicola che toglie energia e fiacca la volontà un’umanità dolente e ingrigita; porta il peso del suo corpo fisico attraverso un’esistenza che è degradata come l’esoscheletro dello Stato che ci circonda. L’unica presenza viva nel deserto dei 1.000 metri quadri dell’ultimo piano dell’anagrafe sono delle piante, delle felci, organismi semplici che riescono a sopravvivere e a crescere per inerzia. Ci stiamo lasciando vivere come dei vegetali?
L’obiettivo di quest’opera potente che colpisce dritto alla bocca dello stomaco per la sua capacità narrativa e visiva, è parlare della condizione dello spirito, per mostrare senza retorica e in modo diretto l’attuale condizione di uno Stato, quello italiano, che da troppo tempo regredisce portandoci nel baratro della perdita della coscienza. 
Per la legge dell’entropia che governa l’universo e la nostra dimensione terrestre, ciò che non evolve non può che regredire. Stare fermi è impossibile. Quindi l’inerzia, ovvero l’incapacità di arginare il male, di lasciare che le cose vadano, senza cercare di modificarle per il bene comune, ci ha portati all’attuale situazione di stallo sociale e di involuzione, economica, culturale e morale.

In un estremo tentativo di interrogare il presente scandagliando il passato rifacendosi a Giorgio Agamben e alla sua “archeologia del presente”, l’artista tenta di forzare il tempo lineare riportando le lancette dell’orologio forzatamente indietro per cercare di individuare l’origine della catastrofe, il punto di esplosione della bomba, che ha generato la mostruosità del nostro presente di Paese che ha perso la speranza e la volontà di migliorarsi. Siamo un residuo storico come il Colosseo e le rovine di Pompei? Dove stiamo andando? Chi siamo? Cosa stiamo diventando? Dominati da un’inerzia che ci appiattisce, conformandoci a codici decisi da altri che indirizzano anche i nostri desideri, arriviamo nell’ultima stanza dove brilla l’oro di un grande monocromo, la luce entra dalla finestra aperta, una seggiola di legno si regge in equilibrio precario su tre gambe. Il nostro passato ci guarda, Dante svetta marmoreo al centro della Piazza. 
Resto li in una sorta di meditazione sospesa fra l’oro della tradizione rinascimentale e il massimo della poesia e dell’impegno politico. 
Forse una speranza c’è e l’artista ci mostra come in quel nostro passato, dove affondano le nostre radici culturali e visive, possiamo trovare la linfa per andare avanti con una diversa consapevolezza. 
Il progetto Le sette stagioni dello spirito è sostenuto dalla Fondazione Morra e con il matronato della Fondazione Donna Regina-Museo Madre. 

5 Commenti

  1. Tosatti continua un’archeologia del passato e del ready made, dove tutto è inevitabilmente significativo. Inutile sottolineare che ogni luogo storico è necessariamente significativo. Soprattutto se scegliamo bene questi luoghi. E alla fine diventa contemplazione del decadimento. Un lamento. Non una soluzione. Prendere consapevolezza è fin troppo facile.

    Anche se poi ci sono problemi anche in questo caso: si stava meglio nell’italia di 100, 1000 o solo 50 anni fà?????? Non credo. Semplicemente oggi si soffre un pelo di più per via di una crisi economica che forse deriva semplicemente da una condizione di inutile ed esagerato benessere (anni 80-90- fino al 2008). Per un modello di sviluppo abusato e che non potrebbe comunque continuare a crescere. Se Tosatti si ammalava al tempo di Dante o anche solo 100 anni fa moriva, oggi ha il servizio sanitario gratuito e può sopravvivere. Quindi con queste facili retoriche starei molto attento…

  2. Se fosse sufficiente questa tua breve riflessione per spiegare un linguaggio che non c’è.., allora non c’è bisogno di scomodare la polvere dell’anagrafe. Il corpo dello Stato, ormai è evidente e risaputo a tutti che è gravemente malato e non c’è bisogno di Tosatti. Ecco la trappola in cui si è infognata l’arte contemporanea. Perchè la coscienza nei cittadini e più veloce della produzione di feticci inutili installati e ripiegati qua e là in ambienti o stanze morte. L’artista o presunto tale in questo caso specifico è un fantasma di se stesso, fuori dal quotidiano e dei bisogni reali e spirituali dell’uomo. La polvere in arte deve farsi intendere in una estetica e in una morale condivisibile. Gran parte degli artisti che operano in questo sistema dorato e malato dell’arte sono privi di ogni rapporto con la realtà del vissuto quotidiano. Anche se essi posseggono, in fondo, la volontà che ci vuole per un artista – intendo, cioè, uno spirito creativo che sia capace di comunicare e di farsi intendere nella contemplazione e nell’azione. Ciò si chiama linguaggio estetico. E non banali trovate fine a se stesse.

  3. Quest’opera è un capolavoro.
    L’ho vista ed è stato un colpo durissimo.
    Ho pianto.
    Se l’arte può ancora essere tanto potente, allora credo che questo paese abbia bisogno di questo prima di tutto.

  4. I veri artisti sanno che l’opera d’arte è per se stessa inutile. Non ve ne sarebbe che una utile: quella che rifacesse, nella diversità l’uomo e la società.
    La mia arte non si è mai illusa di aprire la coscienza; ma bisogna che operi “come se” lo facessi. Un capolavoro non è mai un desiderio di armonia appagato nella parvenza dell’arte, ma esso deve creare una situazione reale di distruzione dell’esistente, nel quale il fruitore raggiunge la coscienza del proprio dubbio, del proprio sé e della propria libertà. In questo senso l’arte fa da tramite e si identifica nell’identità sua propria, diviene il tema dell’immagine e della condivisione.

  5. Complimenti per l’opera ottima qualità e fattura , le installazioni sono divine poi lo scorcio e l’elemento effimero dell’arte
    Auguri Roberto Scala

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