29 agosto 2014

Festival del Cinema/Leone d’Oro alla carriera al documentarista Frederick Wiseman. Tra battute e nuovi progetti

 

di

Frederick Wiseman
Una bambina curiosa che immagina possibili molte più cose di quanto gli adulti siano disposti a pensare: si chiama Realtà. La figura è tratta dal film Reality di Quentin Dupieux, dj e filmaker belga. Forse questa figura è  l’immagine da utilizzare per orientarsi nelle scelte e nel significato della Biennale Cinema 71, che oggi premia la carriera di Frederick Wiseman, documentarista americano che ha sempre vissuto fra Parigi e New York, come nella tradizione dei grandi narratori e romanzieri del modernismo, da Hemingway a Fitzgerald.
Per la prima volta il Leone d’Oro alla Carriera viene assegnato a un documentarista, e a spiegare perché è un divertente dialogo fra due stanchezze; quella di Enrico Ghezzi, nel ripetere che il cinema è arte fin dalla prima immagine in movimento, a quella di Wieseman che sembra solo volere proseguire con i suoi progetti e non vuole entrare in questioni legate alla profondità e al senso delle sue immagini. Alla provocazione di Ghezzi, – non si è stancato di sentirsi dire di essere il migliore documentarista vivente? – , dopo aver risposto, – assolutamente no. E non mi stancherò mai –, una risposta che nell’aumentare il senso della domanda la diminuisce anche, il regista aggiunge che «Se qualcosa si può raccontare, allora tutto è un racconto; a cambiare fra documentario e fiction è solo la struttura produttiva». Così sintetizza con molta semplicità Wieseman, disarmando di ogni profondità ontologica il discorso sul cinema. Dimenticate Bazin, Virilio e Baudrillard, qui e ora. Questa non è la realtà raccontata dal neo-realismo, è l’understatement dei sogni ai tempi della realtà aumentata: anche i sogni sono parte della realtà, e se la realtà è aumentata a essere diminuito è lo spazio del sogno. Per questo non c’è nulla che un film possa cambiare, ma tutto ciò che esiste un film lo può anche raccontare. Wiseman ha sempre filmato, prodotto, registrato e distribuito i suoi film da solo. 
Questo atteggiamento sembra essere al documentarista l’unico possibile per affrontare un mondo che è pieno di sfumature, così complesso da essere impossibile da spiegare. Prossimi progetti: Titicut Follies, il primo documentario-lungometraggio che racconta l’esperienza di vivere in un manicomio criminale di Bridgewater, come un musical, e un documentario sul distretto del Queens a New York, dove si concentra la più alta densità di lingue differenti parlate da popolazioni diverse: «Questo non è solo un quartiere di una città americana, è re-american dream allargato a una fascia di popolazione ancora più vasta. New York oggi è esattamente come era agli inizi del novecento, e questo merita di essere raccontato e il luogo che lo racconta è proprio Queens». (Irene Guida)

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