07 ottobre 2014

Cartoline dall’America/ Koons al Whitney

 
Jeff splatter ed esagerato
di Matteo Bergamini
La mostra dell’ex American Boy dispensa stereotipi e miti caduti nell’ombra. Proprio per questo vale la pena farsi un giro tra opere che dopo un poco diventano nauseabonde. E per capire che il denaro è il valore più importante. Almeno da queste parti

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Di Jeff Koons si parla a profusione. Spesso in maniera prolissa, o molto superficiale. Monty Cantsin, artista che ha schizzato la candida parete alle spalle di Rabbit del proprio sangue, e di cui abbiamo recentemente ospitato un’intervista su Exibart, è forse colui che è stato in grado di parlarne più consapevolmente, attraverso un gesto provocatorio e “vandalico” e, come ha ricordato l’artista stesso, che porta le stesse basi (anche, ma non solo) su cui si muove l’opera omnia di Koons: il denaro. 
Cantsin ha usato spesso l’aggettivo “scintillante” per descrivere la mostra del Whitney, che sicuramente per tutti quanti può essere shine (brillante), ma che al di là di un’apparente superficialità è una delle mostre più disturbanti dell’ultimo periodo. È una retrospettiva dove il valore dell’arte è talmente egocentrato ed esibizionistico da risultare nauseante, dove il rispetto della storia è il medesimo che ha avuto Las Vegas nel ricreare la Tour Eiffel o il Canal Grande. 
Jeff Koons. A Retrospective, la sala dedicata a -Made in Heaven-
La mostra di Jeff Koons al Whitney, dal piano terra e dagli ultimi busti in plastica, copie di modelli greci e romani “aumentati” da una sfera blu cobalto disposta a rappresentanza della perfetta modernità, fino ad “Antiquity”, al terzo piano, dove troviamo anche una copia di Pluto e Proserpina giallo acido, realizzata in acciaio lucido a specchio e con inserti floreali che riprendendo la composizione di Split-Rocker (che invece a Rockefeller Plaza non fa l’effetto che provoca Puppy nell’ampio spazio di fronte al Guggenheim di Bilbao, né che lo stesso Split-Rocker rivelava all’ingresso di Versailles, decisamente più iscritto in un contesto “bucolico” di monumento da giardino) è il vomitorium per l’accesso istantaneo alla camera di un ragazzino in preda a fantasie sessuali per adulti ed erotizzato dai propri giocattoli. 
L’ex ragazzo col chiodo e il ciuffo a sinistra, come ricordano le molte foto nel bellissimo catalogo della retrospettiva, nato a York nel 1955, ha trasformato il Whitney nel suo regno, metarappresentazione di una faccia dell’American Way of Life, dove per dimenticare il rapporto burrascoso con la propria compagna (l’ex pornostar e parlamentare italiana Cicciolina, protagonista di tutta la serie Made in Heaven, realizzata nello studio del manager delle luci rosse anni ’80 e ’90 Riccardo Schicchi,  poi scivolato via tra stupefacenti, processi e oramai defunto personaggio dell’epoca) ci si butta su Easyfun (1999), una serie di specchi colorati tagliati secondo le sagome di celebri cartoni animati. 
Jeff Koons. A Retrospective, Michael Jackson and Bubbles, 1988
Ce la possiamo raccontare come ci pare: il taglio in apparenza astratto della superficie e il loro essere monocromi non hanno, oggi, nulla a che fare con le avanguardie, con il genio del Color Field Rothko o con le magie delle bandiere americane di Jasper Jhons, nella collezione dei donors al quarto piano fino a novembre: questi “schermi” oggi fungono da tramite per gli Stati Uniti delle selfie, con i visitatori che fanno a turno per autoscattarsi. E non c’è nulla di male, perché tutto da queste parti è ad uso e consumo degli occhi, che dopo qualche sala sono saturi di colori, e spesso anche di disgusto, come di fronte alla gigantesca installazione Play-doh (1994-2014) disposta nella sezione intitolata alle “Banality”. Si tratta di un cumulo spugnoso e colorato di pezzi sovradimensionati di quella che in Italia la Mattel vendeva come Didò, la prima pasta scultorea ad uso e consumo dei piccolissimi per creare forme di qualsiasi tipo, ma che spesso e volentieri viene lasciata a grandi pezzi e ricompattata a formare un unico, indistinto, colore, tra il piombo e il marrone. Koons, come faceva il suo antenato Warhol con uno stile che oggi giudichiamo più impeccabile con le Brillo Box, ci propone invece la pasta nel pieno della sua gamma cromatica, in una montagna difficile da abbracciare con lo sguardo e che ci lascia davvero visivamente turbati. Perché? 
Perché siamo increduli, forse, che una massa di colori del genere, informe, sporca (in senso metaforico), talmente scintillante – appunto – da risultare abbagliante, possa entrare in un museo. Perché abbiamo travestito il museo con i paramenti di un luogo sacro, oggi più che mai. Forse è così anche per Jeff Koons, che ci fa entrare nel tempio della sua religione e ci chiede di essere sguaiati, di ridere, di scattare foto ricordo e, per un italiano, anche di fare i conti con il “Partito dell’Amore”. Ma questo, forse, Koons non lo sa. 
Jeff Koons. A Retrospective, Play-Doh, 1994-2014
Chissà invece se è consapevole che la sua arte si ferma nel cunicolo buio della fine del secolo breve, quasi non avesse trovato la chiave d’accesso per passare, almeno tematicamente ed esteticamente, al 2000 e oltre. Più che a una Modernità liquida quest’infornata di Koons-objects ricorda i Miti d’Oggi di Roland Barthes (saggio uscito proprio un paio d’anni prima della nascita del nostro artista) o i Nuovi Mostri – che qui non sono umani, ma oggetti seriali collezionati e usati amorevolmente e poi rigettati come si eliminano le relazioni non più funzionali al proprio destino. 
Attraversando le sale, in scena, i gonfiabili di alluminio intrecciati alle sedie di plastica da esterno, l’Hulk-organo, Popeye, Ballon Dog in versione oro, la serie degli Inflatables (i piccoli gonfiabili realizzati nei primi anni ’80, prima della mostra “The New”, che aprì a Koons le porte del sistema dell’arte internazionale nel 1985, e ovviamente un’intera sala di Vacuum Cleaner sotto teca. E anche in questo caso la distinta di matrice psicanalitica è decisamente da manuale: Koons racconta che da bambino era affascinato da questi esseri meccanici e androgini, contemporaneamente maschili e femmili e dalla doppia funzione. 
Jeff Koons. A Retrospective, La sala -Celebration- con Balloon Dog
Anche in questo caso, quando una guida tenta di spiegare che le parti meccaniche degli aspiratori ibridate con neon sottostanti e appesi al muro sono forme di ready made che guardano all’opera di Dan Flavin e al gesto primigenio di Marcel Duchamp, sembra che tutto strida nonostante la plausibilità dell’interpretazione. 
Tutto da buttare, insomma, in questa mostra che vuole parlare degli Stati Uniti e della loro immagine? Assolutamente no! Probabilmente bisogna cercare di guardarla come se si fosse all’interno di uno scavo archeologico. Di Koons è rimasto il concetto, ma si è smaterializzato l’oggetto. Il capitale è stato sovvertito dal virtuale, e anche se il denaro è sempre il fine ultimo, con il cambiamento dei termini del linguaggio anche la percezione dei relativi meccanismi si è drasticamente modificata. Entrando nella retrospettiva di Jeff Koons entriamo in un regno che da quasi un secolo recita i paradigmi dell’immagine, dell’apparenza.  Ma la grande bolla si è sgonfiata, almeno quella relativa all’arte come puro oggetto, mentre sussiste sul mercato proprio come in una discoteca: i bar tender versano da bere per non far finire la festa, il pubblico inebriato continua a saltare anche se è esausto. È un po’ quel che capita in questo caso: continuiamo ad osservare questa faccia d’America, nella sua formazione più reaganiana, più bulimica e apparentemente senza spessore, anche se sappiamo perfettamente che è finita e che gli stessi Stati Uniti, per primi, stanno cercando di reinventarsi un nuovo ruolo. 
Più sostenibile, anche solo in apparenza. E dove l’autenticità costa carissimo prezzo, come i reperti di una cultura soffocante che ci mostra Koons e che conosciamo così perfettamente bene che la folla non disturba, anzi, fa parte del corollario di una festa pagana dove – come sempre – sono santificati i feticci: della musica pop o dell’arte, dell’antichità o della televisione, non importa, e dove tutto ha la stessa aggressiva, spudorata, nauseante paletta di colore e gusto. 

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