16 settembre 2014

L’arte di aspettare l’attimo fuggente

 
Kenro Izu, fotografo giapponese attualmente in mostra Modena, l’ha imparata molto bene. Aspetta anche due, tre giorni per fare il suo scatto. Piazzato il treppiede, attende che la luce sia al punto giusto, che qualcosa accada. Che la foto nasca. Così le sue immagini sembrano farsi da sole. Con il tempo, la natura, e l’attesa. E i luoghi diventano sacri grazie al suo sguardo

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Kenro Izu, Sakkara #13, Egypt, 1979 (serie Sacred Places courtesy l’autore)
Arrampicarsi su, sempre più su, fino a raggiungere la sommità. Il fiato corto per via dell’altitudine, lo sguardo che spazia all’orizzonte, vigile nell’abbracciare la natura rigogliosa delle Ande – qualche macchia verde e le montagne che sembrano Pandori senza zucchero a velo – con lo stupore di un bambino Kenro Izu (Osaka 1949, vive a New York) coglie nelle pietre di Machu Pichu il fluire della storia, il dramma della sopravvivenza, il dialogo natura/civiltà, l’insicurezza dell’ignoto e – soprattutto – la grandezza di un’entità superiore a cui non è necessario dare un nome. 
È così anche nella penombra che avvolge le statue di Buddha nella grotta di Pak Wo in Laos, tra i ghat di Varanasi dove ha appena assistito ad una cremazione, in mezzo alle sabbie dorate di Saqqara o di Palmira, davanti alla maestosità di Borobudur (Indonesia).
Scatti che appartengono alla serie Sacred Places, una ricerca che porta avanti dalla fine degli anni Settanta e che include Bhutan Sacred Places (2002-2007) e India Where Prayer Echoes (2008-2012). Intorno a questi progetti ruota la mostra “Kenro Izu. Territori dello spirito” (a cura di Filippo Maggia), organizzata dalla Fondazione Fotografia di Modena nell’ambito del festivalfilosofia 2014 negli spazi del Foro Boario di Modena (12 settembre 2014-11 gennaio 2015) che si arricchisce, rispetto alla mostra del Lucca Photo Fest 2011, con una selezione dei lavori più recenti.
Kenro Izu, Taksan #131, Bhutan, 2003 (serie Sacred Places courtesy l’autore)
Per Kenro Izu si tratta di cercare un accordo tra la sua visione e il soggetto che fotografa. Lo trova in una formula molto vicina alla meditazione, escludendone l’accezione religiosa: «quando vedo il soggetto per la prima volta, mi fermo e faccio il vuoto nei miei pensieri – afferma – mi concentro per cercare di diventare sensibile alla più piccola variazione che ci può essere nella natura: la brezza del vento, l’ombra di una nuvola che arriva… È come per gli uccelli che se ne stanno tranquilli su un albero e poi, un momento dopo, anche se apparentemente non succede nulla, volano via. Magari c’è un pericolo, oppure semplicemente quello è il momento di partire. Per me è lo stesso, alcune volte – quando sono in questo stato – mi viene la pelle d’oca, è un istante in cui colgo un qualcosa di speciale. Quello è il momento dello scatto. Questo approccio mi permette di far diventare ogni luogo il mio luogo, altrimenti non avrebbe senso andare a fotografare le piramidi, Stonehenge o Angkor Wat. Monumenti che sono stati già fotografati da tutti, inclusi i più grandi maestri della fotografia, e continuano ad essere fotografati ogni giorno. È fondamentalmente questo il significato di ‘Sacred Places’. Ciò che è sacro non è la sacralità in generale, ma la mia personale visione del luogo».

Kenro Izu, Borobdur #15, Indonesia, 1996 (serie Sacred Places courtesy l’autore)

Quanto alla tecnica è decisamente preziosa, non solo in quanto si tratta prevalentemente di stampa al platino e palladio (o della più comune gelatina ai sali d’argento), ma perché prevede l’utilizzo di una notevole quantità di tempo che, nell’era in cui viviamo, è il bene più ambito. 
Vedere una stampa al platino di Paul Strand, nel 1983, ha aperto un mondo per il fotografo giapponese. La straordinaria varietà di sfumature dei toni, la meticolosità dei particolari che affiorano dall’immagine sono solo alcune delle caratteristiche di questa tecnica dal sapore nostalgico. Come i pionieri della metà del XIX secolo egli si avvale di un’apparecchiatura speciale – pesante quanto ingombrante – che porta con sé durante i lunghi viaggi.
Inquadratura e scatto possono succedersi immediatamente, ma non è detto che sia sempre così. Spesso possono passare alcuni giorni, come nel caso della fotografia di Machu Picchu. «Monto il treppiedi e posso trascorrere anche un’intera giornata senza che succeda nulla, allora prendo le misure e mi segno il punto esatto in cui va messo il treppiedi e me ne vado a dormire. Torno il giorno dopo, sto lì dall’alba al tramonto, seduto accanto all’apparecchio, mangio e aspetto che la composizione sia perfetta, e magari solo il terzo giorno scatto la fotografia».

Kenro Izu, Angkor #26, Cambodia, 1993 (serie Sacred Places courtesy l’autore)

Quanto all’elemento viaggio, che appaga la sua sete di conoscenza e stimola l’adrenalina dell’avventura, coincide anche con una pragmatica ricerca estetica. Dal suo taccuino del viaggio in Ladakh (India) del 1999, leggiamo che dopo esser arrivato in aereo da Delhi a Leh e aver trascorso un po’ di tempo ad acclimatarsi, visto che la città è situata ad un’altitudine di oltre 5.000 metri, è salito a bordo di una piccola jeep – solo lui e una guida locale – per lasciarsi condurre sugli sterrati che costeggiano pericolosi dirupi, finché: «Il paesaggio comincia ad assumere un aspetto surreale. Abbiamo raggiunto la zona di Ramayuru che è famosa per il suo “paesaggio lunare”, che gli elementi hanno scavato nel tempo quasi eterno, come una scena ultraterrena… Il gompa (monastero buddista – n.d.R.) di Ramayuru, un tempio che è uno dei principali soggetti di questo viaggio, può essere visto in lontananza, seduto sulla cima della montagna, come elemento integrante della scena. Emette le preghiere e la determinazione di un popolo, e si trova in totale armonia con la natura. Utilizzando una bussola per calcolare la direzione in cui il sole tramonterà, ho deciso dove collocare la macchina fotografica. E aspetto che arrivi il momento. Guardo l’ombra delle montagne a ovest che comincia a crescere, accelerando ogni secondo. Posso vedere chiaramente il movimento dell’ombra di una montagna dietro il gompa, ma lui rimane a scintillare al sole. Quando la coscienza si sincronizza con il movimento della luce, ed emerge il puro stato di coscienza, ci si può permettere di percepire l’atmosfera che normalmente non è possibile. Quando la luce sul gompa raggiunge la sua massima intensità, anche la mia coscienza raggiunge un picco. Poi, quando si sente il click dello scatto, anche la mia coscienza torna lentamente al suo solito stato d’incertezza».

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