23 luglio 2015

BIENNALE DI VENEZIA/L’INCHIESTA

 
L’ITALIA? NON PERVENUTA
Artisti italiani assenti dalla Biennale. Normalità o fatto da discutere? Rispondono curatori e direttori di musei

di

Sono sempre piuttosto scarsi gli artisti italiani presenti alla Biennale di Venezia, ma quest’anno possiamo dire che non ci sono affatto. Due morti: Fabio Mauri e Pino Pascali e due straniere di fatto, Rosa Barba e Monica Bonvicini, non fanno esattamente arte italiana di oggi. È un problema? No, se si pensa al nostro mondo globale, dove la qualità degli artisti certo non dipende da dove sono nati o da dove vivono. E no, di nuovo, se con questo si insinuasse una qualche forma di quote nazionali da rispettare. Sì, invece, se la scelta di Okwui Enwezor solleva implicitamente un problema che chiunque abbia a che fare con l’arte in Italia conosce benissimo: una marginalità sempre più marcata, dovuta alla fragilità del nostro sistema, allo scarso investimento che questo fa nei propri artisti e a una certa forma di “afasia” che li caratterizza. E le due cose sono il rovescio l’una dell’altra.
Abbiamo chiesto ad alcuni direttori di musei e curatori di dirci la loro. Facendo, se lo ritenevano opportuno, qualche nome di artisti italiani che avrebbero potuto rientrare nel disegno della Biennale di Enzewor. Ecco le loro opinioni.
Cristiana Perrella

Cristiana Perrella – curatrice indipendente
Premetto che al direttore di una Biennale dovrebbe esser chiesto di approfondire la conoscenza dell’arte del Paese che la ospita, cosa che non mi risulta Enwezor abbia fatto. È un’opportunità per la nostra scena artistica che non ha senso perdere. L’IKSV, che organizza la Biennale di Istanbul, fa un grande lavoro in questa direzione, facilitando la ricerca dei curatori sul territorio senza, ovviamente, imporre “quote” nazionali. Nella biennale curata da Adriano Pedrosa e Jens Hoffmann, ad esempio, c’erano una dozzina di artisti turchi su 120 artisti invitati.
Non credo che gli artisti italiani siano tutti privi di potenza e coraggio, piuttosto che Enwezor non si sia dato pena di andare oltre le conoscenze che già aveva, come è successo con Robert Storr, che aveva invitato solo italiani passati per New York.
Artisti come Adrian Paci e Marinella Senatore, Adelita Husny-Bey o Valerio Rocco Orlando, ad esempio, sarebbero potuti rientrare benissimo nel progetto di “All the World’s Futures”. Adrian Paci per la centralità che hanno nella sua opera temi come la migrazione, il lavoro, la dignità e per il modo in cui li traduce in opere dalla grande potenza emotiva e formale. Senatore, Husny-Bey e Orlando per il loro interesse al tema della pedagogia, come strumento attraverso il quale immaginare alternative sociali (cosa parla di più del futuro?) e per le modalità innovative del loro lavoro.
Alessandro Rabottini

Alessandro Rabottini – curator at large di GAMeC, Bergamo 
La limitata presenza di artisti italiani a questa biennale è una questione complessa che non credo si debba affrontare facendo i nomi degli artisti che, secondo il mio o l’altrui parere, avrebbero potuto esserci. Questo rientra nell’ambito delle preferenze personali che ogni curatore ha il diritto di esprimere in una mostra, ed è un discorso del tutto arbitrario rispetto all’interrogarsi sulla forza del nostro sistema artistico, che credo sia il punto su cui è più utile confrontarsi. Detto questo, ci si può anche chiedere se curare un evento internazionale come la Biennale di Venezia sia una questione di diplomazia politica e di quote nazionali o se, invece, abbia a che fare con l’esprimere un punto di vista individuale e sicuramente parziale, ma legittimo.
Letizia Ragaglia

Letizia Ragaglia – Direttrice Museion, Bolzano
I tre artisti potrebbero essere Rossella Biscotti (Molfetta 1978, vive e lavora a Bruxelles), Nicolò Degiorgis (Bolzano 1985, dove vive e lavora) e Gianni Pettena (Bolzano 1940, vive e lavora a Fiesole). Tutti sono particolarmente attenti ai cambiamenti del paesaggio, della politica e della storia dell’Italia contemporanea.
Rossella Biscotti perché, anche se ha partecipato alla Biennale di Massimiliano Gioni, è un’artista il cui percorso è costellato da una riattivazione costante della memoria e dal conferimento di una nuova prospettiva al tempo storico, che diventa attuale nella rilettura del presente. Il suo ultimo lavoro (work in progress) su Zeret nelle montagne della provincia del Manz in Etiopia getta una luce nuova su un capitolo buio della storia italiana.
Nicolò Degiorgis, per il recente successo internazionale di un progetto fotografico work in progress condotto alla scoperta dei luoghi di culto islamici disseminati nelle regioni nord-italiane intitolato Hidden Islam. Degiorgis ha iniziato a fotografare i luoghi improvvisati in cui i musulmani esercitano il loro culto nell’Italia contemporanea, alla periferia di grandi città e in scenari precari e abbandonati, come ex-garage e capannoni industriali tracciando un’immagine complessa e problematica dell’Italia di oggi.
L’”anarchitetto” Gianni Pettena invece ha saputo rimettere in discussione il progetto moderno: nel suo lavoro l’architettura, costante sfondo della sua ricerca, non trova esito vitale in alcuna prefigurazione progettuale, ma viene invece ritrovata nell’ambiente naturale e nei comportamenti collettivi come energia, processo, scarto, dispersione.
Fabio Cavallucci

Fabio Cavallucci – direttore del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
Okwui Enwezor ha ragione. C’è poco da lamentarsi di una non riconosciuta qualità, di una calpestata sovranità nazionale: il direttore della 56a Biennale di Venezia ha perfettamente ragione quando ritiene gli artisti italiani incapaci di interpretare il nostro tempo, così come ce l’hanno Charles Esche, Jessica Morgan, Fulya Erdemci, che alle rispettive recenti biennali di San Paolo, Gwangju e Istanbul non hanno invitato alcun italiano. Poco conta che qualche artista di qualità ciascuno di noi lo possa conoscere, e ovviamente si potrebbe fare un lungo elenco che senza dubbio non sfigurerebbe al confronto. Il problema non sta nel trovare alcuni nomi, ma nella debolezza strutturale dell’arte italiana del nostro tempo. Che manifesti una fiacchezza di ricerca, che sia incapace di affrontare problematiche forti, che spesso sia il frutto di percorsi superficiali, non profondamente sentiti, sono fatti evidentissimi quando la poniamo a confronto con quella di altre nazioni, con la determinazione dei giovani polacchi, per esempio, o con la nuova generazione di artisti britannici ormai ribellatasi alla lunga dominazione degli YBA. Questo di Okwui Enwezor è un segnale forte. Prendiamolo come tale e cominciamo a rimboccarci le maniche. Tutti. Subito.
Alfredo Cramerotti

Alfredo Cramerotti – direttore di MOSTYN, Galles
A dir la verità non avevo fatto caso all’assenza di artisti italiani nella selezione. E sì che ero stato anche alla conferenza stampa con Enwezor e Baratta a Londra, la più lunga della storia forse (quasi tre ore). Questo mi fa pensare che forse non presto più di tanta attenzione da dove vengono o dove lavorano gli artisti, ma piuttosto che cosa fanno e dove vogliono andare. Che mi sia sfuggito del tutto forse è proprio la considerazione più importante.
Vivo all’estero e lavoro sia fuori che in Italia. Gli artisti italiani sono presenti nei miei programmi, ma non mi è mai venuto in mente di invitarli perché italiani o perché vivono in Italia. Per “Sequences VII” a Reykjavik, ce ne erano due su ventisei. Per il “MOSTYN Open 19”, ne abbiamo invitati quattro su trentotto (Serena Porratti ha pure vinto 10mila sterline di premio). Il programma di MOSTYN ha incluso due italiani con mostre personali negli ultimi 18 mesi, e un’altra personale è in programma l’anno prossimo. Per il Padiglione delle Mauritius di quest’anno ala Biennale, zero su quattordici artisti. Gli artisti italiani espongono, ma le cose cambiano a seconda di cosa si fa.
Può darsi che Enwezor non abbia coinvolto colleghi italiani o di base in Italia nella sua ricerca, o può darsi che l’abbia fatto, ma non abbia trovato le sinergie che cercava. Il fatto che la Biennale sia a Venezia può essere importante nel considerare a chi appoggiarsi per la propria ricerca, ma non deve essere un mandato obbligatorio. A Reykjavik dodici artisti su ventisei sono islandesi, e per le Mauritius sette su quattordici. Necessariamente la partecipazione locale è importante e presente, vista proprio l’idea curatoriale. Ma se facessi una mostra incentrata sull’idea del marxismo, sull’etica o sull’economia, non vedo perché dovrei avere una certa quota di artisti che sono o vivono in quel posto. Sono tematiche molto sfaccettate, globali e interconnesse con l’idea di nazione, sviluppo, capitale, morale. 
Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio – direttore GAMeC, Bergamo
Un curatore sceglie nomi e opere, poi bisogna vedere se la mostra funziona. Sulla carta possiamo imputare a Enwezor una tendenza o un’altra, ma sarebbe come accusare un regista perché ha scelto alcuni attori piuttosto che altri. Certo dato il tema potevano esserci anche Nanni Balestrini, Michelangelo Pistoletto o Mario Merz, con alcune opere specifiche.
Il problema casomai è un altro: Enwezor non è nuovo a questo approccio all’Italia, e anche nella sua edizione di Documenta c’erano solo due artisti del Belpaese: Giuseppe Gabellone e Multiplicity. Non sappiamo se il direttore sia andato a fare studio visit, questo è il punto da indagare. Chiaramente, se uno è chiamato a fare una mostra in Italia e a disposizione c’è un pacco di soldi, quantomeno ci sarebbe il dovere di andare a cercare e vedere gli artisti del luogo. Che poi si decida di reputarli interessanti o meno, idonei o no al proprio progetto, è un altro discorso. 
Vincenzo De Bellis

Vincenzo de Bellis – Direttore artistico MiArt e Peep Hole, Milano
Partiamo dal presupposto che secondo me mai un tema realmente può essere così predominante dal determinare completamente la scelta o meno di inserire un artista. Penso che ci siano degli artisti italiani che a prescindere dal tema potrebbero, per qualità del lavoro essere presenti nella mostra. Ora il problema è che quasi tutti sono stati presenti nelle ultime due/tre edizioni della biennale perché, bisogna ammetterlo, il nostro Paese non brilla ultimamente per ricambio generazionale.
Perdonate la ripetitività, ma se dovessi fare tre/quattro nomi che secondo il mio parere sono i più “vicini” al concept di Enwezor direi: Micol Assael, Lara Favaretto, Massimo Bartolini
Foto di copertina: Stefano Arienti, Cristalli, 2013
Foto in alto: Okwui Enwezor e Paolo Baratta

2 Commenti

  1. Sono un artista che ha letto con attenzione tutte le Vostre critiche, sull’Arte Contemporanea, devo dire, discutibili, interessanti.
    non sono un critico, neanche uno storico dell’Arte…non è , secondo me, ne “Una normalità” ne “Un fatto da discutere”…
    é inutile piangerci addosso, tanto, l’artista che vuole avere una sua continuità nell’arte deve, purtroppo, essere sponsor di se stesso.
    Sarebbe ora che, anche in Italia il Ministero preposto, prendesse, come modello , i Ministeri stranieri, quelli che lavorano seriamente in questo campo.
    In Italia c’è tanta Arte, Classica, dare importanza all’Arte Contemporanea si finirebbe solo per fare uno spreco di denaro pubblico, così sembrerebbe…
    E’ una vecchia mentalità, acquisita con il passar del tempo, che, per poterla rimuovere ci vorrebbe uno sforzo non indifferente!

  2. ahhahahahha;;;;;;;;;;))))))purtroppo io sono una persona controcorrente. Ritengo che i curatori sono una razza che non sa ne che cosa sia l’arte ne scegliere. I curatori sono come i politici, vivono di scambi di amicizia si creano i loro artisti e di consequenza mandano avanti per fatti personali e non di merito. Il sistema dell’arte italiana è figlio della Repubblica Italiana. Anche le gallerie d’arte italiane richiedono arte dall’estero, non per bravura degli artisti stranieri, ma per il semplice fatto e stupido fatto che i curatori o galleristi..si dico: “facciamo venire un artista dall’estero che così porta con se un alone di mistero” sapete che cos’è ? è semplice ….ignoranza e mistificazione…e egocentrismo di internazionalità…oppure narcisismo

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