29 agosto 2015

National Gallery in cerca di soluzioni, ma la crisi continua. E Gabriele Finaldi inizia il mandato dovendo risolvere il “caso diplomatico”

 

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Sono passati dieci giorni dall’insediamento di Gabriele Finaldi alla National Gallery di Londra, ma la situazione non si è sbloccata e anzi, rischia di precipitare. Per cominciare basta ricordare che la prima mattina del neo direttore, lo scorso 17 agosto, al museo erano chiuse i tre quarti delle sale. 
I dipendenti, e sono più di cento, hanno iniziato uno sciopero ad oltranza, il cui motivo è sempre lo stesso: l’appalto ai privati di alcuni servizi, che secondo il museo consentiranno di “operare con maggiore flessibilità e offrire un servizio migliore”. Ad esempio durante le aperture serali, cose che nei contratti di lavoro, vecchi anche di vent’anni dei dipendenti, non erano prese in considerazione come attività del museo che, ricordiamolo, è la seconda attrazione turistica di Londra e ha una media di sei milioni di visitatori all’anno. 
Il problema è che ora Gabriele Finaldi e la Presidente Hannan Rothschild si trovano nel bel mezzo di una crisi: come uscire dall’impasse dei lavoratori scioperanti, e garantire fondi per il museo e per l’esternalizzazione. In Gran Bretagna, infatti, la National Gallery ha visto tagliare del 30 per cento nell’ultimo anno il contributo statale, anche se pare che il nuovo regime “esternalizzato” si opererà un notevole risparmio ma per “traghettare” gli oltre 300 dipendenti del museo alla società Securitas ci vorranno mesi, e ancora non è chiaro – da parte dall’azienda – come verranno reinseriti. Intanto, per il quinquennio di contratto, da questa parte si sono presi 80 milioni di sterline, mentre tutti i dipendenti – dallo scorso luglio – possono contare sul salario minimo londinese, il cosiddetto “Living wage”: 9,75 sterline l’ora.  

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