29 agosto 2015

Melotti, il narratore leggero

 
Attraverso gli archivi di Domus, il NMN di Monaco riscopre lo straordinario rapporto che l’artista ebbe con la rivista. Raccontando amicizie, riconoscimenti e fallimenti

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La sede di Villa Paloma del Nouveau Musée National ospita per la prima volta nel Principato di Monaco “Fausto Melotti” (a cura di Eva Fabbris e Cristiano Raimondi). Una selezione di una  ventina di sculture di metallo e più di 70 ceramiche accanto a documentari, filmati e fotografie. Una retrospettiva nata attraverso l’incontro fortuito con una delle fotografie di Ugo Mulas esposte, racconta la direttrice Marie Claude Beaud, rivelando di aver conosciuto l’opera di Fausto Melotti, uno dei più importanti scultori italiani, in questo strano modo.
Il progetto espositivo vuole mettere in evidenza come il lavoro di Fausto Melotti scultore compaia poco sulla scena nazionale e internazionale, se non a partire dagli anni Cinquanta. Complice l’amicizia con Giò Ponti, fondatore della rivista DOMUS, in cui vengono pubblicate le prime fotografie delle sue opere accompagnate dalla descrizione di alcuni lavori e da dichiarazioni dell’artista stesso. Proprio a partire dalle pagine della rivista, si articola e si definisce il percorso iconografico della mostra sviluppato sui tre piani della villa. Questa esposizione colma quindi una lacuna e, intessendo il complesso rapporto che lo scultore ebbe con Ugo Mulas e la profonda amicizia che lo legò a Lucio Fontana e a Italo Calvino, emerge il milieu che ha contribuito a creare l’humus del fermento culturale di quell’epoca.
Fausto Melotti, vista della mostra, foto di Andrea Rossetti
La mostra intreccia i racconti dei successi e dei fallimenti di un artista straordinario: non solo scultore, ma anche ingegnere, musicista e ceramista, coprendo un arco temporale che va dal 1935, anno della prima mostra alla Galleria Il Milione di Milano, in cui nessuno comprese il suo nuovo linguaggio astratto, nemmeno un artista sensibile come Carlo Carrà che ne parlò come “opera intelligente, ma non scultura”, fino agli inizi degli anni Settanta. Passando per la stagione di grande popolarità che lo vede protagonista delle arti decorative come ceramista e piastrellista, mestiere di cui, come afferma in un’intervista, si vergognava e che presto abbandonò.
«Si chiamano ancora arti figurative, ma la bella realtà è fuggita. Oggi, tolti i vecchi maestri, nessun grande artista, degno di rappresentare l’allucinata epoca nella quale viviamo, mette più la tela davanti alla realtà». Queste le parole di Melotti nel numero 392 di DOMUS del 1962 che mette in luce il lato innovativo di questa arte: essere di difficile classificazione. Infedele a ogni forma di definizione come unica condizione possibile per l’artista contemporaneo «preda di una ricca e fatale incertezza».  L’arte di Fausto Melotti sfugge ad etichette che disturbavano il mercato e i critici. Per questo l’incertezza diventa una sorta di manifesto poetico in cui l’artista si riconosce che non evoca l’incoerenza, ma per la sua affinità con l’indecisione che agita e scuote gli animi sensibili. 
Fausto Melotti, vista della mostra, foto di Andrea Rossetti
Proprio per restituire incertezza, astrazione e continuità nessun ordine cronologico è stato infatti scelto per l’allestimento curatoriale, ma unità tematiche e dialettiche che dialogano con lo spazio e i volumi dell’edificio progettati dallo studio Baukun e dall’architetto Valter Scelsi volti a richiamare il senso del ritmo con lo scopo di inseguire la diversità e le sfumature delle opere di Melotti. A partire dagli specchi che modulano i giochi di luce di opere quali Ellissi, agli imponenti basamenti che sollevano da terra le esili e fragili opere sottili in oro come Variazioni e Contrappunto libero. Come il contrappunto organizza la composizione di un musicista, così un’opera astratta si organizza da sola fra un segno e l’altro nel tentativo di creare un’astrazione musicale basata sull’idea di modulazione. Seguendo i principi della melodia e della costruzione ereditati dal suo passato come musicista e dai suoi studi di ingegneria al Politecnico di Milano, Melotti era convinto che non la “modellazione”, inutile tocco espressivo, ma la “modulazione” dovesse caratterizzare la composizione della materia. In Scultura n.14 che giganteggia all’ingresso della mostra, per esempio, non solo sfrutta le regole matematiche e geometriche delle molteplici possibilità di articolazione di un modulo, ma ragiona sulla struttura musicale del trillato applicando la sezione aurea a linee verticali e doppie curve in acciaio inox. Una materia leggera che ricorda le sculture di Alexander Calder.  
Anche Melotti, come “lo scultore dell’aria” vuole mettere in evidenza il rapporto con la materia che, non plasmata ma modulata dall’artista, muta il valore consueto attribuito a quei materiali di origine industriale e li trasforma in oggetti nuovi, divertenti o monumentali, da sperimentare esteticamente e goliardicamente in relazione al ritmo e al suono che i volumi creano.
Fausto Melotti, vista della mostra, foto di Andrea Rossetti
I vuoti, come le pause di una melodia, creano il ritmo delle sue sculture. Come le sculture di Calder anche quelle di Melotti sono pensate per subire le variazione del movimento che con lo spostamento d’aria possono creare dei suoni. Ed è così che alcune sculture prendono vita: leggeri tintinnii sembrano provenire dalle sottili lastre di lamine metalliche in Preludio I o evocare le note su di un pentagramma o la melodia agitata di una sinfonia, come nei riccioli di Scultura n. 15. Opere astratte convivono con opere apparentemente figurative come Falso trofeo del 1961 in cui elementi stilizzati ricordano le tavole di argilla Senza titolo del 1948-49: segni primordiali risalenti a più di 2500 anni fa che Melotti evoca per la loro testimonianza calligrafica, simbolo di un alfabeto primordiale in cui i segni e figure si mescolano fino a confondersi. 
Un racconto che non smette mai di svelare un’idea inedita di scultura, capace senza bisogno di alcuna narratività di evocare delle storie da scoprire come in Teatrino per Scheiwiller. Perché, come il maestro rammenta in una intervista RAI proiettata nelle sale di Villa Paloma, «non è importante quello che si dice, ma quello che si nasconde; ognuno di noi nasconde sipari e siparietti».
Sara Marvelli

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