17 novembre 2015

Impressionisti, arte russa e design italiano

 
Dopo mesi di silenzio, il Palaexpo batte un colpo. Con tre mostre. L’imperdibile? Quella sul design italiano 1900-1940

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La stagione espositiva autunnale si è aperta al Palazzo delle Esposizioni con tre mostre, tutte di altissimo livello qualitativo, che nel loro insieme offrono uno sguardo ampio e complesso sull’arte del diciannovesimo e del ventesimo secolo. L’offerta va dai maestri impressionisti e moderni della Phillips Collection di Washington, all’arte realista russa, fino ai protagonisti del design italiano della prima metà del Novecento. E come fosse un unico continuo racconto corale, l’insieme fa emergere alcuni dei temi allora più dibattuti: la questione della modernità tra progresso tecnologico e utopia, il rapporto con la Natura, il destino delle arti decorative, l’importanza del collezionista e il ruolo dell’artista nella società.
Seguendo il percorso museale, la prima mostra che incontriamo varcato l’ingresso principale del Palazzo è “Impressionisti e Moderni. Capolavori dalla Phillips Collection di Washington” (fino al 14 febbraio 2016; catalogo Silvana Editoriale). L’esposizione, curata da Susan Behrends Frank, presenta sessantadue dipinti realizzati da maestri europei e americani dell’Ottocento e del Novecento da Goya a Manet, da Courbet a Cézanne, da Matisse a Morandi, da Braque a Picasso, da Pollock a Rothko, oltre a un magnifico, modernissimo San Pietro penitente (1600 circa) di El Greco. Le opere esposte provengono tutte dalla collezione del critico Duncan Phillips (1886-1966), che nel 1921 a Washington aprì al pubblico il primo museo d’arte moderna degli Stati Uniti, convinto che “l’arte ha una funzione sociale nel mondo” e che il suo museo avrebbe rappresentato una “forza benefica” per la comunità. 
Monet, La strada per Vétheuil, 1879
Phillips considerava El Greco “il primo grande espressionista” della storia, perciò nel 1922 acquistò per il suo museo il dipinto raffigurante l’ascetico santo in preghiera, ora posto ad accogliere i visitatori all’inizio della mostra. L’itinerario espositivo segue quindi un ordine cronologico scandito da sezioni tematiche: Classicismo, Realismo e Romanticismo, Impressionismo e Postimpressionismo, Parigi e il Cubismo, Intimismo e Modernismo, l’Espressionismo e la Natura, Espressionismo astratto. 
Sempre al piano terra, ma nelle sale più interne del Palazzo, è allestita la rassegna “Russia on the road 1920-1990” (fino al 15 dicembre 2015; catalogo autoedito), che attraverso sessanta dipinti narra un’epoca animata da grandi utopie e da un’immensa fede nel progresso. Secondo una scelta efficace e originale, l’intera mostra ruota intorno al tema del viaggio. Protagonisti di questa epopea sono perciò i nuovi mezzi di trasporto (treni, aerei, automobili, navi, navicelle spaziali) insieme al popolo e allo sconfinato paesaggio russo. Curata da Nadezhda Stepanova e Matteo Lafranconi, la rassegna è il secondo progetto internazionale dell’Istituto dell’Arte Realista Russa di Mosca, un museo privato creato nel 2011 dall’imprenditore e mecenate Aleksej Anan’ev, appassionato collezionista della grande tradizione del realismo russo (che solo in parte coincide con il realismo socialista). Le opere in mostra provengono, oltre che dall’Istituto stesso, anche dai principali musei statali russi e da numerose collezioni private. L’occasione quindi è davvero ghiotta perché si possono vedere maestri famosi come Aleksandr Dejneka (nel 2011, in occasione del gemellaggio culturale tra Russia e Italia, Palazzo delle Esposizioni aveva ospitato una sua antologica, insieme alle mostre “I realismi socialisti e Rodcenko”), ma anche scoprire l’arte di tanti pittori, specie della seconda metà del XX secolo, finora quasi sconosciuti in Italia.
Picasso, La camera blu, 1901
Infine al piano superiore troviamo la rassegna intitolata “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940” (fino al 17 gennaio 2016; catalogo Skira), ideata da Guy Cogeval e curata da Beatrice Avanzi del Musée d’Orsay di Parigi, con Maria Paola Maino e Irene de Guttry, massime esperte di arti decorative italiane del Novecento. La mostra è spettacolare, frutto di uno studio meticoloso e della caccia tenace per scovare e ottenere in prestito le opere più significative, in grado cioè di restituire appieno il gusto e l’atmosfera di un’epoca, attraverso l’intreccio inscindibile tra dipinti, sculture, mobili, vetri, ceramiche, stoffe e altri oggetti d’arredo. A nostro parere, perciò, è questa la mostra che avrebbe meritato il posto d’onore nelle sale principali del Palazzo riservate, invece, agli Impressionisti. 
Gio Ponti, Lampada Bilia, edizione attuale sul modello del 1931
Giunta a Roma in una veste assai accresciuta rispetto alla versione allestita la scorsa primavera al Musée d’Orsay, l’esposizione ripercorre i primi quattro decenni del Novecento, quando ebanisti, ceramisti e maestri vetrai, spesso in collaborazione con i maggiori artisti del tempo, fanno nascere lo “stile italiano”. Uno stile contraddistinto, secondo Guy Cogeval, da gioia di vivere, allegria e ironia, destinato a una classe sociale che nonostante tutto amava ostentare ottimismo. Il percorso si apre quindi con la sezione dedicata al liberty, dominata dai mobili estrosi e bizzarri di Carlo Bugatti e dagli arredi da “mille e una notte” di Vittorio Zecchin. Prosegue con la stagione futurista, protagonista la creatività diffusa e geniale di Giacomo Balla e Fortunato Depero. Seguono la metafisica, e il ritorno al classico di Giò Ponti, raffinato pioniere del design moderno.
Le varie sale propongono ambienti completamente arredati che ricreano alcuni luoghi della casa, come la sala da pranzo di Balla o i mobili di un bel rosso fiammante disegnati da Marcello Piacentini per la figlia di Margherita Sarfatti, Fiammetta, ed esposti accanto a un capolavoro del “realismo magico”, il dipinto di Donghi Piccoli saltimbanchi (1938). Conclude l’ultima sezione, dedicata al razionalismo, la poltroncina a dondolo (1940) di Franco Albini, detta “seggiovia” che, così sospesa a mezz’aria, appare davvero un fragile inno alla leggerezza di una generazione ormai giunta sull’orlo del baratro. 
Flavia Matitti

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