17 febbraio 2016

L’occasione mancata dell’arte espansa

 
L’ultimo libro di Perniola fa discutere. Ma non si tratta di accettare o meno la svolta “fringe”, quanto di interrogarsi sulle condizioni che rendono possibile l’attività artistica

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La parabola dell’arte contemporanea descritta da Mario Perniola nel suo ultimo saggio, L’arte espansa, può essere riassunta così: tra il 1960 e il 2010 l’arte ha vissuto una serie di contraddizioni tenute insieme da una tenace bolla speculativa che oggi è esplosa. La contraddizione principale è questa: ogni cosa può essere un’opera d’arte e tutti possono essere artisti; ma non si accede al “mondo dell’arte” se non attraverso una serie di mediazioni istituzionali, mercantili, mediatiche. Le opere sono feticci, e i fruitori ammirano o acquistano un brand. Quanto alla bolla speculativa – generata da quelle sapienti mediazioni economico-mediatiche – sarebbe a un tempo stesso il collante di questo mondo dell’arte (dei feticci) e la sua fonte di valorizzazione e, dunque, si sarebbe sostituita alla valutazione critica e alla riflessione estetica. 
Negli ultimi anni questo involucro ideologico-economico è esploso, e la Biennale veneziana del 2013 curata da Massimiliano GioniIl palazzo enciclopedico – sancisce questa esplosione, mettendo sullo stesso piano artisti riconosciuti e sconosciuti, dilettanti e devianti, psicopatici e visionari, credenti edetenuti, artigiani e imbalsamatori… Questa sarebbe la “svolta fringe” dell’arte contemporanea (o di quel che ha preso il suo posto), accolta e promossa da Perniola.
MAXXI, Transformers, Choi Jeong Hwa, foto Musacchio Ianniello
Tre i suoi “nodi concettuali”: il rapporto di identificazione arte-vita (che dal Romanticismo alle avanguardie arriva a oggi attraverso il Situazionismo); l’idea di collezione, intesa non tanto come manifestazione di un carattere anale, quanto come espressione di un’economia allargata (la dépense bataillana) o come disposofobia (la paura di buttar via); una concezione dell’arte come azione (terapeutica, magica, alchemica); un recupero del Surrealismo contro il “ritorno del reale” (Hal Foster), in quanto il reale traumatico, non simbolizzabile, sarebbe già abbondantemente fornito dalla cronaca. Un vantaggio di questa svolta fringe è che l’arte torna a essere a buon mercato, ma il problema è che non si sa più come legittimarla, dato che anche la bolla speculativa (unica legittimazione rimasta) non tiene più.
Quale sarebbe dunque una possibile legittimazione di questa congerie di “articoli” tutti “al margine”? All’artisticità, sostiene Perniola, non ci crede più nessuno, perché suppone che esista un’essenza metafisica dell’arte del tutto illusoria. Anche i processi di artificazione proposti dalla sociologia (Nathalie Heinich e Roberta Shapiro) – benché abbiano il merito di aver “disincantato” il mondo dell’arte riconducendolo ai suoi processi terreni di solennizzazione del banale – ricadono in una forma di essenzialismo, restando radicati nel mondo dell’arte euro-americano. Perniola propone allora di considerare – in una “visione sintetica che solo la filosofia può fornire” – una prospettiva diversa, che battezza artistizzazione e che unirebbe le tre sfere che Hannah Arendt riteneva separate: lavoro, produzione, azione. Da qui scaturirebbe per incanto una legittimazione dell’arte fringe, incentrata sul riconoscimento di una (intraducibile) agency «che implica un decentramento dell’azione del singolo a un sistema di relazioni molto complesso», un “transito” che consiste in un barocco operare «unioni e divorzi illegittimi tra le cose». 
Thomas Hirschhorn, In-Between, installation view at the South London Gallery, 2015
Oltre a questa caratteristica – a dire il vero piuttosto tradizionale -, l’artistizzazione sarebbe imparentata con le pratiche novecentesche dello straniamento e si troverebbe in consonanza con i processi virali di socializzazione tipici di Internet. Segue poi una facile decostruzione dell’opposizione tra insider art e outsider art, che confluiscono entrambe nel paradigma fringe, e un epilogo polemico sul “ritorno all’ordine” della Biennale di Okwui Enwezor (2015), che – con un remake modaiolo delle parole d’ordine marxiste – avrebbe chiuso ogni fringe e riaperto solo ai “professori”.
Che dire di questa parabola? Da un punto di vista descrittivo è plausibile, ma anche risaputa. Da un punto di vista filosofico – quello rivendicato da Perniola – è un’occasione mancata. Davvero c’è chi ha pensato che l’arte avesse un’essenza – contro cui rivendicare facilmente i “margini”, le “frange” – che potesse definire i contorni di una “classe” di opere e stabilirne il valore? Non lo hanno pensato né Kant, né Wittgenstein, né Heidegger, né Leo Steinberg… Forse qualche saggista marginale e qualche accademico analitico americano. Ma, soprattutto, fringe o non fringe: in questo libro non c’è una parola sulle peculiarità dell’attività artistica, sulle sue ragioni d’essere (che possono anche essere venute meno nelle nostre società), sulle sue condizioni di possibilità, sulle sue radici antropologiche di lunga durata che difficilmente possono essere istituite o destituite da un paio di Biennali. 
Una riflessione estetica che non si disciolga nella cronaca e nelle dichiarazioni di preferenza ideologiche avrebbe il compito di esplicitare, per quanto è possibile, le condizioni di possibilità non contingenti dell’attività artistica, di metterle a contatto con il nostro presente, e di saggiare quali scintille si sprigionano da questo attrito.
Oggi 18 febbraio, presso la Quadriennale di Roma ha luogo alle ore 18 una tavola rotonda sul libro di Mario Perniola. Oltre l’autore, vi partecipano Cristian Caliandro, Caterina Di Rienzo, Antonio Gnoli, Antonio Grulli, Adriana Polveroni e Marco Tonelli
Stefano Velotti

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