24 febbraio 2016

Il Libano di ieri, come fosse oggi alla British School

 

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Era una vita che non andavo alla British, forse dai tempi in cui a lavorarci c’era Cristiana Perrella. Sono tornata perché da qualche mese un nuovo corso sembra avere ridato linfa vitale a questo posto; un programma di incontri e mostre, curato da Marina Engel, dal titolo “Fragments, Meeting Architecture”. Non si tratta della mostra in sè, né tantomeno dei talk, è la scelta di artisti complessi, con lavori di impatto, che mi ha colpita. 
Venerdì 12 febbraio c’era Akram Zaatari, artista libanese, che ha presentato due video, In this house (2005) e Letter to a Refusing Pilot. Al di là della difficoltà -mia sicuramente- di seguire oltre un’ora e mezza di presentazione in inglese, l’artista ha raccontato in modo sapiente e davvero interessante la nascita di questi lavori, genesi che ha radici profonde nell’architettura, che gli ha permesso di guardare il mondo con occhi diversi. I due lavori video, piuttosto lunghi a dire la verità, ma mai noiosi, sono estremamente poetici, narrativi ma per fortuna mai didascalici. In entrambi la parte intima dello spettatore viene messa alla prova, intanto perché le location sono sempre zone di guerra, e poi anche perché ci si sente particolarmente coinvolti. Sono video molto lenti, che ti danno il tempo di riflettere, di pensare, di capire le dinamiche che ci sono dietro quelle immagini. 
British School at Rome, vista della mostra Akram Zaatari - The Archaeology of Rumour (12 febbraio- 4 marzo 2016 ). photo © Giorgio Benni © British School at Rome
Tra i due quello che mi ha tenuta incollata alla sedia è stato Letter to Refusing Pilot. È una storia vera. Nel 1982 a Saida, città natale dell’artista, un pilota israeliano, durante un attacco di guerra, si è rifiutato di bombardare una scuola, ed ha lanciato la bomba in mare. Ovviamente l’edificio fu colpito lo stesso, da un secondo pilota, poche ore dopo. Nel video c’è la narrazione del fatto, vista dagli occhi di un adolescente, probabilmente Zaatari stesso, dell’accaduto, della scuola, dei ricordi, con questi giovani ragazzi che dai terrazzi degli edifici, anzi probabilmente dall’edificio scolastico colpito, giocano a tirarsi aeroplanini di carta, uno contro l’altro, metafora di vita. L’artista indugia sull’impossibilità di un dialogo, di un incontro tra nemici, un ragazzo libanese ed un pilota israeliano. A molti potrà sembrare sbagliato che gli eventi, la vita con le sue disgrazie, venga raccontata dagli artisti, a me invece questi due lavori, questo soprattutto, sono sembrati forti, duri, con una consapevolezza di una sofferenza che forse noi non conosciamo, e di cui non ci rendiamo conto. È bastato vedere le immagini di quelle case mezze distrutte per farmi capire quanto ancora l’arte può scalfire, entrare a gamba tesa, colpire, far riflettere.
Durante la presentazione dei due lavori, Zaatari ha fatto vedere una lunga intervista a questo pilota israeliano, che non aveva avuto il coraggio di distruggere una scuola, tanti bambini, tanti morti. Era il 1982, eppure solo ieri altre scuole, altre bombe, altri morti.

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