27 ottobre 2016

Le Emojis originali entrano nella collezione del Museum of Modern Art di New York, raccontando la storia di un successo nato prima del 2000

 

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Sono “Umili capolavori di design [che] hanno piantato i semi per la crescita esplosiva di un nuovo linguaggio visivo”. Così annuncia il MoMA di New York, che dopo l’ingresso della bandiera rainbow nella sua collezione porta le Emoji originali, nate in Giappone a cavallo tra il 1998 e il ’99. 176 caratteri, le famose “faccine” che oggi abbiamo sullo smartphone e che accompagnano i nostri messaggi, in versione originale e in numero ridotto.
Le prime, infatti, ad essere state realizzate dalla società nipponica NTT DoCoMo, sono 176 di dimensioni 12 per 12 pixel.
Nati da un’idea di Shigetaka Kurita, le emoji sono stati progettati come un modo per visualizzare le immagini sul telefono cellulare e gli schermi cercapersone, insistendo sul pubblico di adolescenti. Rapidamente diffusosi in Giappone, nel 2007 quando Apple ha lanciato l’iPhone, ha incorporato proprio gli emoji per avere successo sul mercato del Sol Levante.
I primissimi emoji sono ora un po’ difficili da decifrare, ma molti dei simboli rimangono universali: il cuore, la faccina sorridente, e anche il bicchiere di Martini.
E che vi piaccia o no, secondo uno dei massimi musei del mondo si tratta di un fenomeno della cultura non trascurabile, anche dai risvolti sociali. All’inizio di quest’anno, infatti, la commissione dell’Unicode Emoji ha aggiunto 11 nuove emoji per promuovere l’uguaglianza di genere, dopo le lamentele per il fatto che i personaggi femminili erano per lo più relegati a figure di ballerine e altri ruoli stereotipati. 

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