20 maggio 2017

Il tesoro incredibile, che fa discutere

 
Al di là dei costi milionari e di una "credibilità" da ritrovare, Damien Hirst mette il dito nella piaga del nostro tempo, dominato dalle fake-news e dalla “Post-verità”

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Non è un caso che il termine Post-Verità sia stato usato la prima volta nel 2010 dal blogger David Roberts, per poi esplodere durante il referendum per la Brexit e durante la campagna elettorale negli Stati Uniti, vinta da Donald Trump. Ma è sorprendente che Damien Hirst, l’artista più famoso e più controverso del mondo, abbia cominciato a pensare alla prima mostra che celebra la post verità dieci anni fa, quando il termine non esisteva ancora. E che lo abbia fatto non rivolgendosi alla realtà ma alla storia del liberto Aulus Calidius Amotan di Antiochia, che aveva fatto costruire una grande nave da carico, costruita nel porto di Myos Hormos sul Mar Rosso con parti del battello provenienti da Alessandria, intorno alla fine del primo secolo D.C. 
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Partito dal porto per una lunga navigazione, sarebbe affondato per il peso eccessivo del suo carico: il relitto dell’Incredibile (chiamato così per la sofisticazione della nave) giace sul fondo del mare e non è stato mai ritrovato, con il suo carico di tesori provenienti da ogni angolo dell’Impero, ammassati dall’ex schiavo innamorato dell’arte. Gli ingredienti per una mostra blockbuster ci sono tutti: lo schiavo riscattato e diventato ricchissimo, la sua smodata passione per l’arte (che ci ricorda il cardinale Scipione Caffarelli Borghese, protettore di Bernini e Caravaggio e letteralmente ossessionato dal collezionismo), il tesoro inghiottito dagli abissi marini e casualmente ritrovato (vedi Titanic e Andrea Doria).  E fin qui la mostra si presenta come una grandiosa e milionaria operazione pubblicitaria, orchestrata dall’artista insieme a Pinault per recuperare mercato e credibilità presso un’audience internazionale, accorsa sulla laguna per la Biennale di Venezia. 
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Ma la complessità del progetto va molto oltre, e la sua stratificazione si rivela soltanto ad una lettura attenta e non superficiale. Innanzitutto, la questione del rapporto tra originale e replica, analizzato in maniera esaustiva dalla mostra “Serial Classic”, curata da Salvatore Settis alla Fondazione Prada nel 2015. E Damien Hirst va oltre, presentando lo stesso manufatto in due versioni e spesso in materiali diversi, in un sottile gioco di rimandi tra le due sedi della mostra, dove troviamo una Testa di Medusa in cristallo e in bronzo (Punta della Dogana) , replicata in malachite (Palazzo Grassi). Nell’universo del post ready-made  i giochi tra materiali sono impressionanti, soprattutto per quanto riguarda i manufatti naturali, come la copia di un cranio di mammut femmina in marmo di Carrara (talmente perfetto da sembrare vero) che gli antichi ritenevano fosse il teschio di un Ciclope, o la gigantesca copia in bronzo dipinto di una conchiglia di Nautilus, esposta a Palazzo Grassi. A questo proposito, l’artista innesta ulteriori riflessioni, fondendo insieme verità storica e post-verità: mi riferisco alla serie dei Five Grecian Nudes, esposti a Punta della Dogana accanto alla foto storica di una sala dell’”International Surrealist Exhibition” (Londra 1936) dove figurano gli stessi nudi in marmo rosa presenti in mostra.  Il secondo esempio è ancora più inquietante : si tratta della copia di Children of a Dead King, gruppo scultoreo in bronzo che rappresenta i figli prigionieri di Mitridate, re del Ponto, esposto accanto ad una replica dipinta di bianco e crivellata di proiettili , accanto ad una fotografia vintage di alcuni soldati tedeschi che usano la scultura (ma quale?) come bersaglio. 
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Il gioco tra archeologia e storia,  si fa ancora più complesso quando si va ad analizzare con attenzione la tipologia di oggetti come Calendar Stone, presenti a bordo dell’Incredibile, colato a picco appunto nel primo secolo D.C., quando la civiltà azteca è  fiorita tredici secoli dopo. A questo proposito, forse la sala più riuscita dell’intera mostra è quella che presenta il modellino dell’Incredibile, ricostruito secondo la descrizione tratta dalla copia medioevale del  manoscritto attribuito al marinaio Lucius Longinus, che ci informa che la nave portava un carico di 460 tonnellate. Sulle pareti della sala sono appesi i disegni, tutti rigorosamente su carta pergamena, che mostrano dettagli delle opere trasportate, realizzati con una maestria indiscutibile in carboncino, grafite, gessetto, matita, foglia d’oro e foglia d’argento. Ma l’icona dell’intera mostra è senz’altro Andromeda and the sea monster, dove Hirst ironizza perfino con se stesso, dopo aver applicato piercing ai capezzoli dei faraoni egizi,  aver caricato calendari aztechi su vascelli affondati dieci secoli prima, oltre a sculture di Topolino e Pippo ricoperte di madrepore e coralli finti. 
Il mostro che sta per divorare la bella Andromeda, simile ad una top model pubblicitaria, è uno squalo bianco, icona dell’arte di Hirst, il primo artista dell’era della post-verità, che ci fa scoprire che la storia del mondo è stata tramandata soprattutto attraverso le copie, e la fissazione di cercare gli originali deriva dalla nascita dell’archeologia, nel primo Settecento. 
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Non c’è nulla da fare: questa mostra può essere respingente e disturbante, ma sicuramente mette il dito sulla piaga del nostro tempo, dominato da false notizie diffuse dai social e ritenute vere perché nessuno si prende la briga e l’attenzione di verificarle. Qualsiasi opinione si abbia dell’artista, la mostra va vista. Damien Hirst prende il problema da lontano, rilegge la storia e la mescola con la leggenda, ribalta il tempo e gioca con i materiali, utilizza un budget milionario per mettere in scena non il suo mondo, ma il mondo all’alba del Ventunesimo secolo, con una visione lucida e terribile. Chapeau!
Ludovico Pratesi

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