31 maggio 2017

Ribattere sulla storia

 
Dieci anni e cento libri, ognuno da riscrivere su un singolo foglio. Ecco il progetto quasi surreale di Tim Youd, a Roma, che rende “impressione” le lettere. Lo abbiamo intervistato

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Se passando sul lungotevere in Augusta, vedete all’interno dell’ara Pacis un curioso individuo battere a macchina sappiate che non si tratta di un eccentrico guardasala ma di una performance che l’artista americano Tim Youd (Maine, USA, 1967) eseguirà per un altro paio di giorni. 
Di cosa si tratta più specificamente? Da dieci anni Tim Youd ha intrapreso il progetto “100 novels”, che prevede la ribattuta a macchina di cento romanzi.  La peculiarità di questo progetto è che ogni romanzo, ribattuto con lo stesso modello di macchina da scrivere dell’autore, è riscritto su un singolo foglio di carta fatto passare ripetutamente attraverso la macchina da scrivere. Il risultato è un unico foglio contenente tutte le parole del romanzo, del tutto illeggibili. 
Oggi Youd è a metà dell’opera, e per il suo cinquantesimo romanzo ha scelto l’Augusto di John Williams. Siamo andati all’Ara Pacis per conoscerlo e farci raccontare il suo progetto. Avvicinandoci alla sala Paladino, che prende il nome dal mosaico realizzato dall’omonimo artista, il rumore del ticchettio della macchina da scrivere ci accompagna e si fa sempre più forte. Tim Youd è lì, da solo, totalmente immerso nel ribattere il romanzo che ha davanti e che ha saldamente ancorato ad un reggilibro, come gli spartiti di un musicista. È talmente concentrato che abbiamo il terrore di interromperlo. Ma ci facciamo forza e ci avviciniamo, piacevolmente colpiti dall’affabile cordialità e gentilezza che lo contraddistinguono. Ed è così che inizia la nostra chiacchierata.
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Parlami del tuo progetto “100 romanzi”, com’è nato e cosa significa per te riscrivere un romanzo.
«Per molti anni ho lavorato sui testi e la letteratura e come questa si manifesta visualmente, questo anche prima che iniziassi il progetto “100 romanzi”. In particolare ciò che mi ha fatto pensare a “100 romanzi” è questo riconoscimento a livello formale quando si guarda un libro: non è altro che un rettangolo con un testo nero all’interno di un rettangolo di pagina bianca che si ripete. Così ho pensato a come avrei potuto ottenere tutte queste parole in una sola pagina quasi come a condensare il libro. Questo mi ha portato a pensare di usare una macchina da scrivere per riflettere il tipo di natura impostata dal libro e mettere tutto in un’unica pagina. Ho pensato al tipo di macchina da scrivere da usare e questo mi ha portato all’idea che avrei dovuto utilizzare lo stesso modello dall’autore. Questa scelta mi ha aiutato a connettermi con l’idea del pellegrinaggio letterario e ad andare nei luoghi legati alla vita dell’autore o al romanzo stesso. Successivamente mi sono chiesto quanti ne avrei potuti riscrivere. E beh, oggi esistono milioni di liste per qualsiasi cosa: i 100 migliori romanzi, i 100 migliori dischi, le 100 migliori canzoni…così mi è piaciuta l’idea del”100” ed è così che il progetto si è sviluppato interamente». 
Che cosa ti lega ai libri che riscrivi?  Sono libri che hai già letto in passato? Esiste un rapporto preciso con i libri che scegli?
«Il primo punto di partenza di tutto il progetto è che il romanzo deve essere stato scritto a macchina dall’autore. Non avrei mai potuto ribattere Charles Dickens o Cervantes, semplicemente perché non usavano la macchina da scrivere. Ho letto tutto quello che ho riscritto; sono libri cui sono interessato e sui quali ho dedicato tempo, perché essenzialmente la riscrittura è un mio tentativo di essere un buon lettore. Cerco di capire chiaramente il libro, cerco di pensare a quello che sto facendo. Non riesco a ribattere un romanzo che non mi piace o che non mi abbia colpito. Li ho letti tutti prima di riscriverli con una sola eccezione: è stato all’inizio del progetto quando stavo riscrivendo un romanzo di Kurt Vonnegut in Indiana. Ho terminato la sua riscrittura in metà del tempo che avevo a disposizione, così ho preso un altro romanzo di Vonnegut che avevo con me, ma che non avevo mai letto; era un’emergenza ma è l’unica volta che è successo in 50 romanzi». 
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Hai notato dei cambiamenti nel ribattere un romanzo che non conoscevi rispetto a riscrivere quelli che avevi già letto?
«Ho letto un bel numero di romanzi di Kurt Vonnegut. Il caso ha voluto che non avessi letto quell’unico libro e che il modello di macchina da scrivere che avevo con me era stato usato dall’autore solo per 3 romanzi. Avendo terminato il libro che avevo scelto, ho usato l’unico che potessi riscrivere. Fortunatamente ho familiarità con Vonnegut e ne capisco rapidamente lo stile ma, quando hai qualcosa leggere per la prima volta, inevitabilmente si è interessati alla trama e  a cosa succederà…». 
Che criterio usi nella scelta dei romanzi da riscrivere? Tra tutte le personalità legate a Roma perché proprio Augusto e perché l’Augusto di Williams?
«Una delle altre regole o parametri che seguo è che i romanzi debbano essere stati scritti in inglese. Non parlo altre lingue – difetto tipicamente americano –  così ho deciso di non riscrivere niente di tradotto ed essendo Williams americano, Augusto è stato scritto in inglese. L’altro motivo è che John Williams ha scritto un romanzo, Stoner, che è un romanzo incredibile e mi piace molto. Perciò quando mi è stata data l’opportunità di venire a scrivere in Italia, ho iniziato a pensare a cosa mi sarebbe piaciuto scrivere. Sapevo che volevo riscrivere questo romanzo di John Williams perché non solo mi piace, ma perché amo Stoner, che reputo essere un capolavoro». 
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Poco fa hai parlato del rapporto tra il testo e come il luogo si manifesta attraverso di esso.  C’è un legame preciso con il luogo in cui tu decidi di scrivere e l’immaginario che tu hai di questo luogo? Cerchi di rivivere le sensazione emerse dall’immaginario che hai del luogo?  
«Come ho detto prima, penso che la performance in sé sia un’esercitazione per essere un buon lettore ma è anche un’esperienza di vita. Penso che come artista ad un certo punto si diventi quello che si sta facendo. O quantomeno ne sei tentato. Quando vado a visitare un posto divento parte di quel luogo e attraverso di esso imparo a conoscere  la figura del romanzo. L’autore in questo caso non sta solo conoscendo Augusto attraverso il romanzo, ma essendo qui a Roma, all’Ara Pacis – in questi giorni sono salito sul Palatino e ho visitato la casa di Augusto – raccolgo tutta questa esperienza e ne faccio parte di me. Questo è il risultato che ottengo. Adesso, in particolare, quello che resta della performance non è che la reliquia; una reliquia formale, un ricordo visivo della performance che continua ad esistere al di fuori di me». 

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Hai menzionato più volte la volontà di essere un good reader, un buon lettore. Poi però crei un’opera illeggibile. Rendi omaggio a un libro ribattendolo, quindi facendolo vivere una seconda volta, per poi fargli perdere la sua funzionalità. Non posso non pensare Emilio Isgrò che fa della cancellatura e dell’illeggibilità il suo linguaggio artistico. Perché questa contraddizione tra un’opera illeggibile e il voler essere poi un buon lettore?
«La performance è una cosa e quello che ne è generato è un’altra. Potrei digitare fino all’ultima pagina di questi romanzi, ma penso che quando si legge un libro e quando poi lo si finisce è impossibile avere in mente parola per parola tutte le pagine del libro. Ne hai un’impressione e penso che questo sia un po’ quello che resta dopo che hai finito un libro. È un’impressione: è così che la vedo».
Un altro artista italiano che ha insistito molto sul dialogo tra letteratura e arte contemporanea è Bruno Munari il quale si è domandato se il libro come oggetto, indipendentemente dalle parole stampate, può comunicare qualcosa. Invertendo le parti io ti chiedo: un libro può esistere senza i suoi elementi comunicativi tipici? Le parole stampate e le immagini che esse creano sono indipendenti dal suo supporto? 
«Beh, è proprio questo il punto! Sì e no…Si può pensarli come entità individuali, e in realtà penso che possano funzionare individualmente, ma che possono anche lavorare insieme». 
Fabrizia Maselli

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