15 dicembre 2017

L’intervista/ Pepi Marchetti Franchi

 
HAPPY BIRTHDAY GAGOSIAN ROMA
A tu per tu con la direttrice della galleria, in occasione di un compleanno speciale festeggiato con Andreas Gursky

di

Pepi Marchetti Franchi è la front woman della sede romana del colosso targato Larry Gagosian, che da dieci anni si occupa della sede italiana della galleria, oggi negli spazi di via Francesco Crispi. Un’occasione speciale per questa intervista è proprio il compleanno di questa “istituzione”, che nella Capitale ha portato il contemporaneo più internazionale, con grandi nomi i cui lavori in rare occasioni si sono visti in Italia. Come Andreas Gursky, per esempio, artista che ieri sera ha aperto la sua personale “Bangkok”: una serie di fotografie decisamente pittoriche legate all’immagine dell’acqua, di grande formato, per la prima volta – appunto – in mostra nel Belpaese, nonostante la loro realizzazione risalga al 2011. 
Che cosa significano questi dieci anni per Gagosian Roma?
«Per me, più che dieci anni, significano 46 mostre. Un numero importante soprattutto quando si guarda alla lista di tutti gli artisti che si sono avvicendati in questo spazio. Mi fa impressione anche perché sono volati, tra progetti intensi e veloci».
In effetti avete avuto una programmazione serrata…
«Si, e negli ultimi tempi abbiamo allungato un po’ la timeline per dare il modo di scoprire i nostri grandi protagonisti, spesso poco visti in Italia, anche a chi arriva da fuori Roma. Gursky è emblematico in questo senso, e merita tempi più museali che da galleria».
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Andreas Gursky, Bangkok II, 2011, Stampa a getto d’inchiostro Edizione 5/6, 307 x 227 x 6 cm (incorniciato), © Andreas Gursky / SIAE, Italia. Courtesy Gagosian

Ti aspettavi tutto questo successo? 
«È stata un’esperienza sorprendente, anche perché quando siamo arrivati l’assetto del gruppo era molto diverso. Non c’era ancora la sede di Hong Kong e nemmeno quella di Parigi, e anche a New York lo spazio era molto più raccolto».
Torno quindi all’inizio: perché Roma?
«Questa è stata la prima domanda che gli feci quando mi raccontò questa idea. Di Cina si parlava già moltissimo all’epoca, e tanti stavano già aprendo nell’area continentale del Paese, e quella sembrava la mossa più ovvia per un gallerista di successo. Larry invece rifugge il senso comune e sceglie Roma, che già conosceva perfettamente visto che spesso veniva a trovare Cy Twombly. Roma, e l’Italia, sono luoghi a cui gli artisti non sanno dire di no; hanno una tradizione che è la storia della civiltà e dell’arte visiva. Sono magnetici. Quando ho capito che questo era lo scopo ho immaginato che forse era la giusta direzione, anche se ho passato mesi a cercare di dissuaderlo da questa impresa».
Come ha reagito in questi anni il collezionismo?
«Ci ha riservato grandi sorprese. Il collezionismo in Italia è molto radicato, e molto spesso ci si dimentica che forse, in senso lato, l’abbiamo inventato noi. In questi dieci anni il bacino è cresciuto, ma lo scopo di Larry, aprendo a Roma, non era puramente commerciale: è una galleria che nasce con gli artisti in testa e la consapevolezza che una grossa scuderia fa la differenza. Il successo si costruisce coltivandolo con programmi interessanti».
Il parterre è prettamente italiano o anche estero?
«Diciamo che è flessibile. Molti italiani comprano anche nelle sedi di Londra o Parigi».
Colpa della fiscalità?
«Per contro, in Italia, vi sono anche agevolazioni negli acquisti. Certo la nostra IVA non lascia scampo».
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Andreas Gursky, Bangkok IV, 2011,  © Andreas Gursky / SIAE, Italia. Courtesy Gagosian
Che cosa è cambiato in questi dieci anni, anche allargando lo sguardo alla città?
«Roma, come ben sappiamo, non è cambiata in meglio. Quando siamo arrivati l’aria era diversa: nella classica competizione con Milano eravamo in pole position. Stava per aprire il MAXXI, il Macro…Speriamo che la corsa non sia finita qui».
Come sono i rapporti con gli altri galleristi romani?
«Ottimi, anche se noi continuiamo ad essere un po’ un’astronave atterrata per caso. Oggi, tra l’altro, ci stiamo aprendo ai più giovani, anche se abbiamo lasciato molto spazio ai big, da Sherman a Christopher Wool, da Murakami a Hirst. La galleria è uno spazio sorprende, un ovale borrominiano che è stato ristrutturato come un “white box”: se all’inizio c’era un po’ di perplessità, oggi ogni preoccupazione rispetto a questa particolare architettura è stata resa congeniale ai progetti, e gli artisti adorano questi muri curvi».
Mi dicevi che si sono costruite anche importanti collaborazioni nel corso di questo decennio. Mi fai qualche esempio?
«Per noi aprire qui voleva dire lavorare in Italia. Mi riferisco, per esempio, alle mostre realizzate con il Comune di Firenze al Museo Bardini, di Currin o Glenn Brown, Kusama al PAC di Milano, Twombly a Ca’ Pesare a Venezia, il grande Warhol che abbiamo portato al Museo del Novecento ancora a Milano, la stretta sinergia con Fendi per l’intervento di Giuseppe Penone…Ci piace uscire dalla galleria».
Come mai la scelta di Gursky per questo compleanno?
«Volevo portarlo in Italia da tanto tempo, ed è un peso massimo del contemporaneo. Il fiume ritratto in queste immagini è poi un po’ lo specchio del nostro Tevere. Gursky è poi anche un artista con un grande approccio pittorico, quindi anche con la storia che appartiene all’arte di Roma».
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Andreas Gursky, Bangkok V, 2011, © Andreas Gursky / SIAE, Italia. Courtesy Gagosian

Come lavorate rispetto alle altre sedi di Gagosian? In maniera unitaria immagino…
«Assolutamente. Siamo una galleria unica anche se i miei colleghi o io ci spostiamo negli altri spazi, ma siamo parte dello stesso network. Roma, forse, essendo periferica rispetto al mondo dell’arte globale ha un po’ di logiche sue».
Parlami un po’ del futuro?
«Per ora viviamo giorno per giorno. Abbiamo progetti molto interessanti che alterneranno giovani e grandi Maestri. A marzo arriverà Shiro Kusaka: l’artista lavora con la ceramica e per Gagosian Roma lavorerà site specific. Per la prima volta metteremo in scena questo mezzo dell’arte».
Ti faccio una domanda meno attinente alla galleria e più generale. Pensi che i giovani artisti italiani siano più deboli rispetto ai loro coscritti europei, americani o cinesi? 
«No, non lo penso. E non sono d’accordo sul fatto che il nostro sistema non aiuti. Guarda la Francia: nonostante tutto non ha prodotto tanti più artisti dei nostri. Penso che sia molto competitivo questo mondo senza confini, e che il confronto – non facile – deve essere con una audience internazionale. Quest’anno per fortuna il Padiglione Italia alla Biennale è stato degno di tale nome ed è importante, per l’Italia intera, avere queste vetrine usate con intelligenza e qualità».
Hai un ricordo particolare di qualche artista passato di qua?
«Ne ho diversi ma tra tutti non dimenticherò mai le passeggiate fatte per Roma con Walter De Maria, uno dei miei idoli già da molto prima di lavorare per Gagosian. Con lui siamo andati alla celletta di San Francesco a Ripa. Ed Ruscha, invece, quando ha fatto la mostra qui ha portato tutto lo studio e la famiglia in vacanza. Questo dimostra anche il potere di questa città: tutti erano estasiati. Su questo siamo ancora molto forti».
Matteo Bergamini

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