24 dicembre 2017

I giorni sono cani

 
Una settimana in compagnia di Camille Henrot e dei suoi colleghi, al Palais De Tokyo di Parigi. In una mostra dalle forme mutevoli. Come la vita

di

C’è un giorno della settimana che preferite o che magari detestate? Perché è del solito tran tran che Camille Henrot ci parla in “Days are Dogs”, titolo del progetto che l’artista francese presenta lungo i 6mila metri quadrati del Palais de Tokyo, in cui si mettono a fuoco una serie di riflessioni originali sui modus operandi della società attuale. 
Il titolo, che non manca di stile, s’ispira all’espressione anglosassone dog day per indicare una giornata difficile, insomma la nostra “giornata da cani”, ma non solo. L’artista s’interessa ai rapporti sociali ai quali la parola cane rinvia, vedi quelli di dipendenza. «Perché è la dipendenza che dà il ritmo alla nostra vita, come i giorni e le notti», asserisce Camille Henrot. L’esposizione, curata da Daria de Beauvais, si disloca lungo sezioni che prendono i nomi dei giorni della settimana, sottolineando come questa struttura, inventata di sana pianta, regoli il nostro rapporto al tempo, la nostra esistenza. Per dare vita a questo ampio spazio, in cui ritroviamo grandi installazioni tra scultura, video, pittura, e una miriade di oggetti anche personali, Camille Henrot ha avuto carta bianca. L’artista ha invitato così a partecipare al suo progetto artisti come David Horvitz, Maria Loboda, Nancy Lupo, Samara Scott, Avery Singer, e il poeta Jacob Bromberg, con i quali ha sviluppato un dialogo creativo e collaborativo che si manifesta lungo tutto il percorso. Sì perché Camille Henrot, classe 1978, è un’artista multidisciplinare, che si appropria di tecniche artistiche e di materiali disparati per raccontarci, attraverso ricerche approfondite, la storia dell’universo, della vita e dell’uomo. In “Days are Dogs” l’artista parla di sé, di ciò che la opprime o rende felice, instaurando così un dialogo aperto e spontaneo con lo spettatore, che in questa continua ricerca di senso di quello che lo circonda, s’impregna di riflessioni sul sé e il mondo oggettuale. Un percorso che va al di là della semplice rappresentazione e che ci porta alla scoperta dell’altro, della società con i suoi rapporti di potere, ma anche con la mitologia. L’artista infatti mette in evidenza come i nomi dei giorni della settimana siano legati a quelli dei pianeti, e questi a loro volta rimandano infatti, come ben sappiamo, a figure mitologiche: martedì da Marte, venerdì da Venere e via dicendo. In questo parallelo Camille Henrot ci parla del potere simbolico dei miti, attraverso una nuova mitologia calata nel contesto storico e sociale del momento, che qui diventa informale e virtuale. 
null
Camille Henrot, Days are Dogs
Giovedì da Giove, la divinità suprema, ci parla dei rapporti di potere, ed è qui che ritroviamo uno scintillante parterre di monetine, dal titolo di Small Change (2017), che si è invitati a seguire. Lungo questo sentiero troviamo spiccioli veri e falsi, coniati per questa mostra, in cui però la classica immagine della “semeuse”, tipica delle monete francesi, è qui rimpiazzata dalla gazza, simbolo di loquacità. Questo passaggio ci conduce tra le opere di Maria Loboda che si concentrano sull’ambivalenza dei segni del potere, e non solo, e incontriamo anche Cities of Ys del 2013. Qui Camille Henrot mette in parallelo, con video interviste, sculture ed incisioni, la leggenda dell’omonima città bretone di Ys e le odierne problematiche degli indiani Houma della Louisiana meridionale che lottano per il riconoscimento dei diritti accordati alle nazioni indiane. In questa sezione coabitano il vero e il falso, il nulla e il caos, ed è su questa scia di opposti che ritroviamo, una delle opere più interessanti, cioè il film Grosse fatigue (HD – 13’46”, 2013), con il testo di Jacob Bromberg (1983, Chicago). Grazie a quest’opera Camille Henrot ha vinto il Leone d’argento alla 55a Biennale d’arte di Venezia. 
null
Camille Henrot, Days are Dogs
“All’inizio non c’era terra, niente acqua, niente. C’era una sola collina chiamata Nunne Chaha. All’inizio tutto era morto. All’inizio non c’era niente, niente di niente. (…)” Questo estratto di Grosse fatigue, in cui si parla, attraverso la voce di Akwatey Orraca-Tetteh, del vuoto, della nascita degli dei e della terra, a cui segue quella dell’ossigeno, degli animali, degli esseri umani, del sapere. Temi che ritroviamo lungo il percorso che approda anche sul tema della saturazione dei sistemi di comunicazione e di informazione. Ma qui già siamo a mercoledì da Mercurio appunto, il messaggero degli dei. Dopo un passaggio tra ipnotici videotelefoni, tra cui Bad Dad & Beyond (2015), percorriamo una sala completamente immersa, tra l’altro, da email personali dell’artista accompagnate da accessori da scrivania, il tutto riprodotto e stampato in grandi dimensioni, che ci rimanda all’ansia da messaggio che attanaglia molti. C’è anche il sabato che rimanda a Saturno, in cui tutto è possibile, ed è qui che possiamo vedere Saturday, un film in 3D, che ci confronta con le speranze e le credenze dei fedeli della chiesa cristiana avventista del settimo giorno. Mentre nella sezione che prende il titolo di Monday, giorno legato alla luna, entriamo in una dimensione più mentale tra depressione, malinconia e dipendenza. Questo spazio è ricco di sculture in bronzo dalle forme zoomorfe, progetto presentato già nel 2016 alla Fondazione Memmo. Insomma, una settimana insolita quella che ci propone Camille Henrot fino al 7 gennaio 2018 al Palais de Tokyo. 
Livia De Leoni 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui