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Quest’anno, in Egitto, vi sarà l’apertura parziale del Grande Museo Egizio (Grand Egyptian Museum, GEM) vicino alle piramidi di Giza. È la pietra miliare, nel settore culturale, di un governo convinto che il richiamo dei faraoni farà tornare l’economia del Paese ad ormai antichi splendori, migliorando la sua immagine all’estero. Peccato, però, che il terrorismo nello stato africano abbia fatto scendere da 14,7 milioni di visitatori nel 2010 a 5,4 milioni nel 2016.
E solo pochi mesi fa lo stesso governo ha fatto un grande passo per ostacolare la vita culturale e lo sviluppo socio-economico del Paese. Alla fine di maggio, infatti, è stata emanata una legge contro le organizzazioni non governative (ONG) – 47mila su tutto il territorio – che limita fortemente le loro attività, impone pene severe all’accettazione di denaro dall’estero e scoraggia le piccole donazioni da parte dei cittadini.
“Limitazione dello spazio del dibattito e della discussione nel Paese, che rischia di rendere più difficile il contributo della società civile allo sviluppo politico, economico e sociale”, si è tuonato a riguardo della folle iniziativa dall’Europa.
Perché sebbene la legge sia rivolta principalmente alle organizzazioni per i diritti umani, anche la vita culturale ne risente, perché la maggior parte delle imprese culturali di base in Egitto sono proprio ONG.
Vi ricordate, ad esempio, Townhouse? Fu fondata dal canadese William Wells nel 1998 e gestiva residenze di artisti che insegnavano agli adolescenti nelle fabbriche del Cairo nel solo giorno libero che i piccoli operai hanno nell’arco di una settimana. Nel 2015 fu indagata, poi la sede incendiata e oggi, con finanziamenti molto ridotti, Townhouse opera in una fabbrica dismessa con uno staff di appena quattro persone. Con, dalla sua parte, una fortissima richiesta per i corsi di scrittura critica, visto che il sistema educativo egiziano non incoraggia il pensiero indipendente.
Mentre il centro della città, altro punto a sfavore, sta morendo: gli investitori puntano alle periferie, tirando su dal niente quartieri con nomi come Hyde Park e Portofino, replicando quel processo che le stesse città americane – creatrici di queste dinamiche tra holding ormai più di mezzo secolo fa – stanno oggi cercando di reinvertire.
E cosa si farà quando anche il vecchio Museo Egizio – King Tut – cederà il passo al nuovo che avanza? Secondo la decoratrice d’interni Nadine Abdel-Ghaffar dovrebbe diventare una piattaforma per l’arte contemporanea egiziana, riempiendo le gallerie di questo posto notoriamente squallido. Lei ci ha provato, e ce l’ha fatta, con una mostra di 16 artisti andata in scena lo scorso ottobre…Ma cosa possono fare alcuni individui quando il governo diffida e diserta l’impegno di 98 milioni di cittadini?
Fonte: Theartnewspaper