23 gennaio 2018

Il MoMA a Parigi

 
La Fondation Vuitton ospita 200 capolavori delle collezioni del museo americano, tra graditi ritorni, carte blanche e tavole rotonde. E qualche delusione

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“Être Moderne” è la prima esposizione in Francia dedicata all’opera svolta dal Museum of Modern Art di New York, il museo-guida che, dal 1929, anno della sua fondazione, ha accumulato un patrimonio artistico formidabile: dai maestri dell’arte moderna e contemporanee agli elementi di architettura e design, già su impulso del suo primo direttore Alfred H. Barr, fino alle ultime creazioni in digitale, oltre all’archivio di documentazioni. Tutte queste componenti sono rappresentate nella mostra parigina, organizzata dal museo americano insieme alla Fondation Louis Vuitton, a cura di Glenn Lowry, direttore del MoMA, e Suzanne Pagé, direttrice artistica della Vuitton, e con il commissario Quentin Bajac, direttore del dipartimento fotografia del MoMA. E per raccontarne la storia come percorso di costruzione di una collezione d’arte piuttosto che di un museo, sono state scelte 200 opere. La selezione di queste, tra le oltre 200mila della collezione, offre un panorama complessivo di tutte le sezioni del museo, tra pitture, sculture, disegni, manifesti, fotografie e film, opere digitali, performance, oggetti di design e documenti di architettura, che ne rappresentano la ricchezza di visioni e ci consentono un’immersione in uno dei templi dell’arte moderna, offrendoci anche le chiavi per prefigurare come, in vista della riapertura prevista nel 2019, si stia preparando a divenire “Il museo del 21esimo Secolo”. 
Per gli europei, la delusione di non rivedere, fra le tante opere da tempo emigrate, Les demoiselles d’Avignon di Picasso o La notte stellata di Van Gogh, acquistate e passate oltreoceano dalla fine degli anni Trenta, è compensata dal ritorno, certo temporaneo, di moltissimi altri capolavori. Per noi italiani in particolare, vedere il trittico di Boccioni Gli stati d’animo composto da: Gli addii, Quelli che vanno, Quelli che restano nella seconda versione del 1911, dopo il suo soggiorno a Parigi e con l’influenza subita dalla pittura cubista, è un’occasione rara per fare un confronto con la prima versione del 1910, conservata al Museo del Novecento di Milano, e per misurare il passaggio da un’impronta Futurista a un segno Cubista. All’emozione di vedere opere di grande valore si affianca la possibilità di studiare le documentazioni dell’archivio, dalle quali si può ricostruire lo svolgersi di questa avventura durata quasi un secolo.
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Installation view of ‘Being Modern: MoMA in Paris’ at Foundation Louis Vuitton. Photography: Martin Argyroglo. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

Un aspetto molto interessante riguarda il percorso, seguito anche da altri musei americani, che per definire la propria specificità hanno sacrificato alcune opere per finanziare l’acquisto di altre. Acquisizioni che ovviamente dipendono dal mercato, dai fondi a disposizione e persino dai gusti dei consigli di amministrazione. Anche gli errori di valutazione commessi in questo procedere emergono in modo inequivocabile, così come il modo in cui il museo è riuscito a colmare le sue lacune con successivi investimenti. La presentazione delle opere dimostra la maniera nella quale il MoMA ha concepito la sua idea di modernità, un tema affrontato fin dalla sua fondazione e che trova un’icastica descrizione nello schema dei percorsi dell’arte moderna, a partire da Cézanne e dai Fauves, costruito da Barr per il manifesto della dirompente esposizione del ’36 “Cubismo e Arte Astratta”. E infatti la prima sala confronta L’Oiseau dans l’espace (1928) di Constantin Brancusi, Le Baigneur (1855) di Paul Cézanne, considerato precursore della modernità, L’Atelier (1927) di Pablo Picasso, la composizione suprematista Bianco su bianco (1918) di Kazimir Malevich, o ancora La casa vicino alla ferrovia (1925) di Edward Hopper.
Il ruolo dominante che gli Stati uniti assumono nella politica dopo la Seconda Guerra Mondiale, si evidenzia anche nella cultura artistica, per il suo divenire l’epicentro delle nuove tendenze quali l’Espressionismo Astratto, la Pop Art, il Minimalismo. Di questa fase, fra le tante, i primi esperimenti di Jackson Pollock, Woman I di Willem de Kooning o il Number 10 del 1950 di Mark Rothko
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Installation view of ‘Being Modern: MoMA in Paris’ at Foundation Louis Vuitton. Photography: Martin Argyroglo. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

A partire dalla fine degli anni ’70 il ruolo innovativo del MoMA si rivolge alle produzioni extra occidentali, al mondo femminile, all’attivismo politico e antimilitarista, alla tematica della diffusione dell’AIDS. I nomi e le opere simbolo di queste sezioni sono tanti, Jasper Johns, Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein. Ma la sorpresa maggiore viene dagli ultimi piani, dove vengono presentate le opere più recenti: installazioni, performance, video art digitale che palesano una politica di acquisti motivata dall’apertura al pluralismo di forme espressive.
Nella parte conclusiva, infatti, dopo le sale stimolanti per gli arditi affiancamenti, si susseguono piccoli spazi monografici: Cindy Sherman, con la serie di foto Untitled Film Stills (1970-88) e Jaanet Cardiff con il suo Mottetto a 40 voci, canto polifonico del XVI Secolo, riprodotto da altoparlanti che circondano il salone e avvolgono lo spettatore in un’esperienza che lo sommerge e coinvolge. 
Un tassello per comprendere la prospettiva nella quale si sta muovendo il MoMA forse può consistere nell’acquisizione di Emissary in the squat of Gods, trilogia del 2015-2017 di Ian Cheng, una serie di live simulation works definita dall’autore stesso «Un video game che si gioca da solo». L’opera è composta da simulazioni generate al computer come quelle utilizzate nelle tecnologie predittive per scenari complessi, come il cambiamento climatico o le elezioni. Popolato da un cast di personaggi e animali selvatici che interagiscono, intervengono e si ricombinano in narrative aperte, le simulazioni di Cheng si evolvono all’infinito.
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Installation view of ‘Being Modern: MoMA in Paris’ at Foundation Louis Vuitton. Photography: Martin Argyroglo. Courtesy of Fondation Louis Vuitton

A corollario dell’esposizione, la Fondazione ha organizzato un programma di eventi. Carte blanche à Lele Saveri, autore dell’opera The Newsstand il chiosco della stazione della metro Lorimer Street a Brooklyn ricostruito nelle sale della mostra, che ha proposto una serata per un’esposizione istantanea, con concerto e distribuzione di riviste attorno al chiosco, per riprodurre l’effervescenza di quel luogo. E poi, la serie di tre concerti di Steve Reich, pioniere della musica minimalista comprendente una composizione storica come Drumming; il cine-concerto Lime Kiln Field Day, con la proiezione del più vecchio film con attori neri, recentemente restaurato e accompagnato da un concerto di Moses Boyd; la serata Etre moderne en nocturne Mickey and MoMA, per un pubblico giovane, per riscoprire i primi disegni animati e cortometraggi di Mickey Mouse come Steamboat Willie, restaurato per l’esposizione. E ancora, due tavole rotonde sul tema: Quel musée d’art moderne et contemporain pour demain? cui parteciperanno conservatori e direttori di musei d’ogni parte del mondo. La prima moderata da Hans-Ulrich Obrist, con i direttori del MoMA, del Centre Pompidou, della Tate, del LACMA di Los Angeles, dell’Ermitage di San Pietroburgo, dello Studio Museum in Harlem di New York. La seconda, moderata da Elisabeth Lebovici, riunisce i direttori o conservatori del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (Madrid), della Moderna Galerija (Ljubjana), del Pérez Art Museum (Miami), del MOCA (Los Angeles) e della Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Dusseldorf, scelti per il lavoro che stanno svolgendo sul tema della formulazione di nuovi modelli museali. 
Giancarlo Ferulano

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