24 maggio 2018

Alla Galleria Campari, Sari Ember ci ha raccontato come trovare la poesia nel quotidiano

 

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Le nostre storie sono uguali eppure non lo sono. Basta fare attenzione alle piccole cose, per esempio, ai gesti che usiamo per salutarci e che, da una parte all’altra dell’Oceano, esprimono l’identico intento ma con sfumature differenti, oppure a come disponiamo certi oggetti negli spazi domestici di Budapest o di San Paolo. Sàri Ember, per la sua mostra alla Galleria Campari, a cura di Ilaria Bonacossa e con Michela Murialdo, ci parla di questa dissonante coincidenza che emerge degli aspetti quotidiani, dal suo punto di vista dislocato tra il Brasile e l’Ungheria. Ember è stata selezionata nell’ambito del Campari Art Prize 2017 di Artissima, proprio per il potere evocativo del suo racconto, in grado di far emergere quella venatura poetica insita nella materia che costituisce la nostra esistenza. Come si fa? Ce lo ha raccontato.
Sei nata in Brasile e le tue origini sono Ungheresi. Nella tua esperienza, quali sono i punti di dialogo e di contrasto tra le due culture? 
«I miei genitori hanno vissuto in Brasile per due anni e io sono nata alla fine di questo periodo. Per molto tempo, ho vissuto la mia relazione con il Brasile attraverso le storie che i miei genitori mi raccontavano e quando l’ho visitato per la prima volta, 15 anni dopo, ho provato l’intensa sensazione di richiamare alla memoria odori, suoni e sapori. Quindi, il mio primo approccio non è stata culturale ma percettivo. Dal 2013, ho vissuto a San Paolo per due anni e questo è stato il mio contatto culturale. Ungheria e Brasile sono molto diversi, è difficile trovare punti di contatto. Per esempio, in Brasile, a chiunque si incontra si chiede “Tudo bem?”, tutto ok?, e si risponde con la stessa frase, confermando che tutto va bene. In Ungheria, si chiede alle persone più intime “come stai?” ed è di solito una buona opportunità per raccontare le tue preoccupazioni. Entrambi i comportamenti hanno o loro lati positivi e negativi ma sono dinamiche opposte. I due anni che ho trascorso in Brasile mi hanno aperto la mente su come pensare e fare arte. La scena artistica di San Paolo è veramente stimolante, con un contesto vibrante e ricettivo». 
La tua ricerca affronta argomenti dell’identità, della comunità e della relazione. Come trasformi queste sensazioni in opere? 
«Mi ispira molto vedere le case delle persone, come mantengono i ricordi attraverso le immagini e gli oggetti su mobili, vetrinette e davanzali, e anche come nei musei conservano artefatti personali e rituali e oggetti di diverse culture. Spesso inizio a fare collage di carta, come studi, ma le opere assumono la loro forma finale anche dopo aver trovato pietre diverse e nel corso del processo di produzione delle ceramiche» 
“Since our stories all sound alike” è la tua prima personale in Italia. Cosa vedremo? 
«Uscendo dalla Galleria Campari, si entra in un mezzanino con grandi tende blu e un tappeto pieno di oggetti: teste di marmo e granito, maschere su supporti di ferro e molti tipi di vasi di ceramiche, coppe e recipienti su basi di legno. Sono disseminati in questo spazio e ci si può camminare attraverso, come in un labirinto, creando la propria connessione tra le opere. È una installazione specifica per questo spazio, con diversi riferimenti alla storia di Campari ma è attinente anche ai diversi modo di rappresentare l’identità con ritratti e oggetti rituali e di uso quotidiano».

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