13 giugno 2018

L’INTERVISTA/ HEDWIG FIJEN

 
NOMADI & EUROPEI
Parla la fondatrice e direttrice di Manifesta a poche ore dal via della 12ma edizione, in una città speciale come Palermo

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Dal 1996 Manifesta è specchio critico delle trasformazioni dell’Europa e vulcanico propulsore di cambiamenti costruttivi. La sua fondatrice e direttrice Hedwig Fijen, partendo da Palermo, ci racconta la filosofia e il futuro di una delle biennali più influenti del mondo dell’arte contemporanea. 
Il nome di Manifesta deriva da “manifestare”, che cosa è necessario manifestare o rendere manifesto oggi? Edizione dopo edizione Manifesta ha costruito la sua reputazione internazionale e la sua importanza: è attesa sempre di più come un game-changer, ospitata dalle varie città non solo come un enorme evento culturale, ma anche come concreta opportunità di cambiamento sociale. A Palermo sta accadendo questo al massimo livello sperimentale messo in atto fino a ora?
«Manifesta è nata in un momento in cui i muri stavano crollando e oggi una nuova “fortezza Europa” è di nuovo in piedi, il tutto in venticinque anni. Manifesta ha un enorme compito: mirare alle tematiche nevralgiche della società contemporanea globalizzata, interconnessa e intrecciata al punto che le questioni economiche, sociali e culturali che sono pungenti e urgenti a Palermo, sono simbolicamente rappresentative anche per altre città del mondo. Palermo è una città con la precisa caratteristica di essere stata punto di convergenza di tre continenti in passato e lo sarà in futuro, è quindi di cruciale importanza per capire come gestire le crisi del nostro tempo. Un nuovo approccio è costituito dalla mia proposta di invitare un ufficio a sviluppare una metodologia di ricerca urbana sulla città messa a punto dallo studio di architetti di rilevanza mondiale OMA, prima di definire i parametri della biennale. Spero che questa indagine chiamata “Palermo Atlas” non servirà solo come analisi, ma potrà essere utile come traccia per il futuro della città e come incubatrice per esplorare le tematiche ecologiche e ambientali sollevate dalle pratiche artistiche di Manifesta 12».
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Palazzo Forcella De Seta, venue di Manifesta 12, Palermo. Fotografia di CAVE Studio.

Ci troviamo in un momento storico di emergenze politiche e sociali. In che termini una biennale nomade può contribuire a far evolvere queste situazioni in modo positivo? La sperimentazione attraverso la cultura può essere un’alternativa alla politica, che oggi sembra faticare sempre più a individuare e proporre un orizzonte positivo?
«Gli artisti hanno sempre sviluppato e incrementato piani innovativi e è difficile dire che impatto avrà un’opera d’arte sulla società. La sperimentazione artistica può ancora essere un potente strumento e, soprattutto in questo periodo storico, gli artisti hanno dato il via a rivoluzioni di tutti i generi e proposto sviluppi in ambito digitale come mezzi per far progredire la struttura urbana. Nello specifico Palermo può incanalare questa energia artistica in quanto luogo in cui decenni di sfruttamento criminale e di negligenza politica possono dare ad artisti, filmaker, scrittore, a filosofi locali e internazionali, la forza di investigare ciò è rimasto alla collettività e il potenziale di ampliamento delle possibilità a favore di una molteplicità di approcci. Manifesta è solita affrontare le crisi del nostro tempo attraverso una serie di interventi nelle città e lavori commissionati ah hoc, che abbiano un approccio locale radicale in collaborazione con gruppi di persone del luogo, individuati e portati avanti da persone locali e che siano operanti come prototipi per interventi su un possibile futuro scenario della città. Alcuni hanno un impatto più sostenibile, alcuni sono discorsivi, altri riflessivi».
Dodici edizioni dal 1996 a oggi. In questi anni l’Europa e il mondo sono cambiati, così Manifesta: si è evoluta da una biennale di arte contemporanea a un evento che include anche altre discipline. Qual è lo spirito giusto con cui visitare questa edizione?
«La presenza di Manifesta in città sarà un’esperienza collettiva sia per gli attori della sua organizzazione sia per i partner locali che creeranno interventi, percorsi, programmi molto densi di proiezioni, performance, processioni e discussioni lungo tutto il periodo della biennale, già anticipati da Aspettando Manifesta 12 e dalla ricerca “Palermo Atlas”. Spero che questa edizione spinga il pubblico a spargersi nella città a differenti livelli e a riconsiderare precisi luoghi e oggetti che i visitatori forse all’inizio vedevano come degradati, sporchi, contaminate o inutili e così capire più precisamente la struttura sociale, ecologica, economica e culturale di una città come Palermo».
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Orto Botanico, venue di Manifesta 12, Palermo. Fotografia di CAVE Studio.
Lei ha creato Manifesta e la dirige fin dalla sua prima edizione. Qual è il segreto per mantenere un equilibrio tra il costante rinnovamento e l’essere fedeli alle premesse iniziali di operare per favorire il dialogo e la collaborazione tra le nazioni europee, abbattendo barriere geopolitiche, economiche, sociali e culturali?
«La forza di Manifesta sta nel suo approccio nomade, site specific e molteplice e nell’essere capace di trovare gli strumenti per poter funzionare come istituzione autonoma e basata sulla ricerca. Ora, dopo venticinque anni, l’innovazione forse si è tradotta di un nuovo format e questo è ciò che stiamo sviluppando. Reinventare se stessi non è applicabile solo al concept della biennale e al suo format geografico, ma anche alla sua essenza istituzionale e concettuale. Lo spostarsi da una biennale d’arte a un evento più interdisciplinare è il primo segno di questo cambiamento, unire una presenza permanente a una ricerca su basate su strumenti nomadi potrebbe essere il prossimo passo».
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Gilles Clément & Coloco, “Workshop 1”, veduta del workshop presso ZEN, Palermo, 2018. Fotografia di CAVE Studio.

Cosa pensa quando guarda indietro alla storia si Manifesta e rivede le migliaia di persone con cui ha lavorato e le centinaia di opere che ha permesso di realizzare?
«Sono grata a tutti gli allievi con cui mi è stato permesso di lavorare e per aver formato una generazione di curatori e produttori di cultura, sono felice di aver potuto dato loro questa esperienza. Venticinque anni sono un lungo periodo e sono molto orgogliosa degli iconici lavori che Manifesta è riuscita a commissionare e di aver lavorato con oltre 500 artisti. La sua vera forza è stata di aver creato una struttura dove gli artisti hanno potuto lavorare in autonomia senza le costrizioni del mercato».
Nei prossimi anni Manifesta cambierà ancora di più? Avete già delle idee per la prossima edizione a Marsiglia nel 2020? La prima edizione si è svolta nei Paesi Bassi, a Rotterdam, c’è qualche possibilità che in futuro la biennale possa svolgersi ad Amsterdam, dove ha sede il suo quartier generale? 
«C’è una possibilità che Manifesta dopo ventincinque anni arrivi a casa, ma non è confermato. Questo potrebbe comportare, per Manifesta, a una maggiore strutturazione istituzionale basata sulla ricerca, senza perdere la sua natura nomadica e la sua forza. Per Marsiglia stiamo lavorando da tre anni e spero di poter annunciare la stessa procedura operativa adottata per Palermo: prima una ricerca urbana e poi, in autunno, la scelta del concept della tredicesima edizione».
Silvia Conta

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