12 luglio 2018

La chiamavano dignità

 
D’accordo con la decisione di ridurre gli “stimoli” ai consumi dannosi, che però aiutano la cultura, oppure l’Italia tira in ballo la “salute dei cittadini” solo quando cerca di fare cassa?

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A guardare dalle prime mosse fatte, questo esecutivo sembra essere tutt’altro che “giovane e nuovo”. O meglio. Sembra proprio che il giovane Di Maio e il più esperto sodale Salvini abbiano fatto bene i compiti a casa: livello di tensione alto (stile anni di piombo), politica attraverso slogan accattivanti (di lezione berlusconiana), promesse di posti di lavoro subito smentite (di democristiana memoria) e tanta attenzione al processo di naming per i decreti (qui c’è lo zampino di Renzi).
Da quello che è emerso dai giornali, il Decreto Dignità è proprio l’insieme di tutti questi elementi: con un corpus di modifiche che non è chiaro quanto possano essere efficaci (e soprattutto eque) in cui si sente l’eco dell’avversione del settore pubblico ai brutti e cattivi datori di lavoro che a quanto pare hanno l’obiettivo principale di lucrare sulle spalle dei propri dipendenti.
Ma c’è ancora un’altra lezione che il decreto dignità sembra aver appreso dai governi precedenti, ed è una posizione che affonda le proprie radici nella scienza politica.
Storicamente, infatti, il ruolo dello Stato è stato interpretato in modo differente, e ampi dibattiti sono sorti sulle azioni che lo Stato dovesse o non dovesse attuare per garantire il bene dei cittadini. Le posizioni più note sono quelle che contrappongono le visioni di uno Stato “superpartes” in cui è demandata alla responsabilità e al libero arbitrio dei cittadini la loro condotta, ad uno Stato interventista e parternalista, che deve agire, in difesa dei cittadini, come fa il ben noto “buon padre di famiglia”.
Il Decreto Dignità, così come buona parte della nostra storia economica recente (e non), sfugge a questa chiara definizione e l’esempio più calzante è quello legato alle azioni proposte nei riguardi del settore del gioco d’azzardo.
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Prima di continuare è bene ribadire che questa riflessione non investe le dimensioni etiche legate al gioco d’azzardo. Il centro del discorso è infatti l’atteggiamento che il nostro Stato ha nei riguardi di alcuni “consumi” ed il palese atteggiamento da “partito della pagnotta” che assume nei riguardi dei settori che li producono. 
È così per le sigarette e tutti gli altri prodotti legati al “fumo”, settore nel quale il nostro Paese ha storicamente attuato due azioni: aumentare le accise facendo lievitare il prezzo dei beni, e scrivendo sui pacchetti che tale prodotto nuoce alla salute. Effetti? Ovviamente nessuno. Ma si badi bene, non è che lo Stato è stupido: non è un caso se lo Stato decide di aumentare, a scaglioni di 5 centesimi alla volta, il prezzo finale al consumo. Un aumento di 3 euro avrebbe probabilmente causato una più drastica riduzione dei fumatori, ma avrebbe sicuramente suscitato l’ira degli “affezionati alla sigaretta” e, forse, inciso negativamente sui flussi di cassa pubblici.
Da oggi è così anche per il gioco d’azzardo che, ora che vede il moltiplicarsi di player privati che entrano nel settore, necessita improvvisamente di una maggiore regolamentazione, urgente al punto da rientrare in un pacchetto di misure che, in realtà, trattano temi piuttosto differenti.
Cosa, dunque? Abbiamo dimenticato che per poter consentire un’estrazione aggiuntiva al gioco del Lotto, lo Stato chiese come condizione un tributo per i beni culturali? Abbiamo dimenticato che, fino a ieri, era anche lo Stato a lucrare su lotterie ed estrazioni? E abbiamo anche dimenticato la tassazione sulle vincite?
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Ma no! Lo Stato non dimentica, lo Stato impara. E così, come visibile dalle prime formulazioni degli articoli, questa limitazione sembra più un ulteriore “tributo” che lo Stato potrà reclamare nei riguardi dei trasgressori.
In che senso? Semplice. Per i contratti di sponsorizzazione, la sanzione prevista è pari al 5 per cento dell’intera sponsorizzazione, comunque non inferiore ai 50mila euro. Non sembra una cifra così proibitiva per un settore che, da solo, copre più di 46 milioni di euro degli introiti per pubblicità televisive. 
Questo almeno, sulla base di quanto è apparso sui giornali. Bisognerà attendere vari passaggi, e poi i soliti decreti attuativi.
Qualunque sia la formulazione finale, da quello che è già apparso sulla stampa è comunque possibile formulare delle opinioni. 
Si potrebbe anche essere d’accordo con la decisione di ridurre la possibilità di fare pubblicità e stimolare ad un consumo che, evidentemente, troppi italiani non riescono a tenere sotto controllo da soli. Ma il sospetto, che trova sempre più conferme, che il nostro Stato tiri in ballo la “salute dei cittadini” quando cerca di fare cassa, è veramente una sensazione spiacevole. 
E non bastano gli slogan contro gli imprenditori cattivi a farla passare in secondo piano. 
Stefano Monti

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