31 agosto 2018

Non più eroi!

 
Berlino e i primi vent'anni della sua Biennale, per un'edizione alla ricerca di un “dialogo collettivo” costruito per “cogliere un processo storico in corso”

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Il ritornello di No more heroes degli Stranglers risuona nei miei pensieri di fronte al titolo della decima edizione della Biennale di Berlino “We don’t need another hero”, che appare esprimere il desiderio di rompere con quell’instabilità politica ed emotiva che sta trasportando la nostra società verso pericolosi revival di autoritarismo e nazionalismo. Obbligati con forza ad un clima da anni Ottanta tra grigi proclami politici, un’infinita crisi della società multiculturale ma anche tempeste di lustrini e tanta voglia di evadere, possiamo leggervi l’evocazione di una società fondata su gerarchie sociali, inequità e tanta marginalizzazione, caratteri fondanti che continuano ad inquinare anche il sistema dell’arte contemporanea. Tra rivendicazioni, grandi nomi e il tentativo di costruire una nuova visione, questa Biennale a cura di Gabi Ngcobo con Nomaduma Rosa Masilela, Serubiti Moses, Thiago de Paula Souza e Yvette Mutumba, celebra il primo decennale con un programma piuttosto eterogeneo. Suddivisa in cinque sedi, la Biennale propone momenti espositivi più canonici accompagnati da formule meno istituzionali e temporanee come workshop, concerti ed esplorazioni urbane di quartiere. L’immancabile centro operativo del KW Institute for Contemporary Art quest’anno è affiancato da mostre ed eventi ospitati presso la Akademie der Künste (sede Hanseatenweg), l’HAU Hebbel am Ufer (HAU 2), il Volksbühne Pavilion e il ZK/U Zentrum für Kunst und Urbanistik. 
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Basir Mahmood, all voices are mine, 2018, video still, 4K video, color, sound 2.1, 20′13″, courtesy Basir Mahmood

A partire dalle più banali questioni organizzative manifestatesi durante la sera dell’opening (e che hanno bloccato centinaia di persone fuori dal KW senza riuscire ad entrarvi), sono diversi i punti critici di questa edizione, primo su tutto una generale disattenzione per gli allestimenti delle mostre e le poco chiare intenzioni che sottostanno le numerose ripetizioni di opere simili, dislocate nelle diverse sedi. Invece di creare un effetto di riunione, sembrano suggerire quello della ripetizione non motivata da alcuna base logico-critica. I problemi dell’allestimento si presentano chiaramente presso l’Akademie der Künste e al Z/KU. Di quest’ultimo sono utilizzati gli spazi adibiti a studio d’artista che presentano esposizioni piccole e molto poco ragionate, tanto nella selezione dei pezzi quanto nella loro organizzazione spaziale. A pareti colme se ne alternano altre completamente sgombre, al punto che ne risulta una visione squilibrata. La visita allo Z/KU tuttavia si giustifica con la visione della “clubhouse presentation” di Tony Cokes nel sotterranneo del centro artistico. 
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Natasha A. Kelly, Milli’s Awakening, 2018, video, bw, sound, 45′, video still, courtesy Natasha A. Kelly

Immersi nel buio e in sonorità da club berlinese, decine di schermi televisivi mostrano testi che scorrono in sovrimpressione su schermate monocrome, ogni visione è collegata a brani selezionati appositamente ed udibili con cuffie circumaurali, per meglio isolare e far scivolare il fruitore dentro l’opera. Riunendo le sue opere Black celebration (1988) e Mikrohaus or the black atlantic? (2006-2008) in questa nuova installazione, Cokes costruisce un nuovo tassello nella sua pratica da sempre volta a costruire ribaltamenti di senso nei confronti della comunicazione ufficiale, in mano ad agenzie di stampa al servizio del potere di realtà politiche ed economiche. Alla base del suo operare risiede quindi una chiara prassi destrutturante che tende a fondare nuove narrazioni su eventi noti, che siano quindi parallele ma opposte a quelle dominanti, raccontando i punti di vista delle marginalità durante battaglie e ribellioni sociali, come quelle svolte nel 1965 tra Detroit, Newark, Boston e Watts, oggetto di indagine di Black celebration. Lo sfondo politico caratterizza anche Autoportrait (2017) di Luke Willis Thompson, allestito invece al KW. Nominato all’edizione 2018 del Turner Prize, l’artista neozelandese ha presentato a Berlino un lavoro sulla morte del trentaduenne Philando Castille avvenuta nel luglio del 2016 per mano della polizia statunitense. L’installazione comprende un proiettore e il video girato in 35mm e in bianco e nero, dalla durata di pochi minuti, che riprende il volto di Diamond Reynolds all’epoca compagna di Castille. Thompson ne realizza un ritratto silenzioso, dando vita a un filmato che intende ribaltare la narrazione che la stessa Reynolds ha realizzato pubblicando un video live su facebook durante gli ultimi attimi di vita di Castille. L’opera d’arte contribuisce a ristabilire l’equilibrio in una tragedia definita a sfondo razziale, riportando l’attenzione sulla vittima dopo che ha dovuto difendere la sua scelta di documentare un momento tanto drammatico. 
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Luke Willis Thompson, autoportrait, 2017, film still, 35mm film, bw, silent, 8′50′′ @ 24fps, courtesy Luke Willis Thompson_ Galerie Nagel Draxler, BerlinCologne

Il KW ospita la migliore sezione della Biennale e una selezione di video come Milli’s awakening (2018) di Natasha A. Kelly e Untitled (M*A*S*H) (2018) di Simone Leigh. Il primo presenta al pubblico le vicende di otto artiste nere tedesche di differenti generazioni, le quali raccontano le difficoltà incontrate nel loro tentativo di inserirsi nel mondo dell’arte, mostrando il cambiamento della società tedesca e costruendo una connessione con il tema dell’eroticizzazione del corpo, a partire da quello della modella Milli ritratta dormiente da Kirchner tra 1910 e 1911. Di diverso tono invece il video di Leigh che mette in scena una rivisitazione della serie televisiva statunitense M*A*S*H (1972-1983). La più seguita a partire dai primi anni Settanta sino al 2010, questa raccontava la vita in un ospedale da campo nel conflitto tra Stati Uniti e Corea, mentre Leigh la riattualizza sostituendo i militari statunitensi con donne di colore intente a svolgere azioni ben differenti, come leggere a un bambino testi sul razzismo e sul femminismo, o ancora cantare To be young, gifted and black di Nina Simone, che ci ricorda: “In the whole world you know, there are billion boys and girls who are young, gifted and black, and that’s a fact!”.  Risulta quindi chiaro il monito a sostituire le guerre per la democrazia con l’educazione dei popoli alla pace, al rispetto dei diritti umani. Ad un’ultima occhiata, se la decima edizione della Biennale pone al suo centro la marginalità del sistema artistico attuale unendo opere di sfondo politico a rivendicazioni sui diritti civili e a problematiche sociali purtroppo ancora oggi di primo rilievo, tuttavia risulta poco incisiva e troppo edulcorata per farsi veramente spazio nelle criticità della costruzione della storia dell’arte di oggi e domani.
Alessandra Franetovich

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